Local hero

In questo strano film di Bill Forsyth nulla è come sembra, tutto e tutti hanno una natura sfuggente. Tendenzialmente è una commedia ma, se non ci facciamo distrarre, dovremmo notare che dal punto di vista del protagonista è una tragedia.

Il punto di vista prevalente è quello di Mac (Peter Riegert), dipendente della Knox, azienda petrolifera texana. Il suo cognome scozzese (ma in realtà lui è ungherese) fa sì che venga scelto per una missione in Scozia, dove si vuole costruire un centro di smistamento al posto di un villaggio di pescatori.

Al capo della Knox, Felix Happer (Burt Lancaster), del petrolio non importa nulla. E' più interessato all'astronomia, e gli raccomanda di tenere gli occhi sulla costellazione della Vergine.

Sul posto viene affiancato da Oldsen (Peter Capaldi), dipendente locale della Knox, che sembra di una nerdosità pazzesca, ma che dimostrerà di saper giocare bene le sue carte in questioni d'amore.

A negoziare per la comunità ci penserà il proprietario del bar/ristorante/albergo locale (Denis Lawson), che è pure avvocato. Anche se la negoziazione è peculiare, con i paesani felicissimi di vendere, Mac che si innamora del posto e di uno stile di vita completamente diverso da quello che pensava essere così bello, ma che si accorge essere di una vacuità assoluta, e si disinteressa completamente della trattativa.

Una serie di bizzarre vicende al contorno rendono ancor più leggera e godibile la narrazione.

Lieto fine per tutti quanti tranne, per l'appunto, per il povero Mac. E non si capisce nemmeno bene perché. Semplice sfortuna, probabilmente.

Altra bizzarria, il film non è noto quanto la sua colonna sonora, scritta niente meno che da Mark Knopfler.

Benvenuto Presidente!

L'ho visto solo a metà. Non sono riuscito a convincermi che ci sarebbe potuto essere un tal cambiamento da farmi rivalutare una prima parte molto fiacca, mal scritta, diretta e interpretata.

Direi che gran parte della responsabilità sia da ascrivere alla regia (Riccardo Milani) che tratta una storia (Nicola Giuliano) che avrebbe potuto essere sceneggiata meglio (Fabio Bonifacci) nel modo peggiore. Sarei più clemente con gli attori, tranne con il protagonista (Claudio Bisio) che avrebbe potuto far valere gli incassi che ha generato per pretendere una produzione meno approssimativa.

La storia è paragonabile a quella trattata in Viva la libertà, uscito anch'esso nel 2013, con un risultato di pubblico molto inferiore ma con una robustezza enormemente superiore. Un tale (Bisio) per un bizzarro scherzo del destino diventa Presidente della nostra Repubblica. Come un novello Chance (ruolo che fu interpretato da Peter Sellers in Oltre il giardino, anche qui siamo ovviamente in un pianeta diverso) costui ha un animo semplice e si trova a operare suo malgrado in un campo di cui capisce poco. Ma è anche un Bertoldo con le scarpe grosse e cervello fino (o piccolino, non è dato saperlo con certezza) e con i suoi metodi montagnoli irrompe nella politica nazionale compiendo inevitabili sfracelli.

I nomi nel cast fanno girare la testa, Omero Antonutti, Remo Girone, Massimo Popolizio, ma sono sprecati malamente. Anche la bella della vicenda, Kasia Smutniak, avrebbe meritato una parte migliore.

Gli Aristogatti

Il successo che ottenne al momento della sua uscita penso sia dovuto anche al fatto che nel corso degli ottanta minuti scarsi dell'azione succede veramente ben poco. Si era in un periodo piuttosto travagliato, e avere l'alibi del marchio Walt Disney per passare un'oretta a guardare simpatici gatti deve essere sembrata una manna caduta dal cielo.

Allo stesso modo, i genitori ne apprezzeranno la quasi assoluta mancanza di atti spaventevoli, che in genere abbondano nella produzione Disney, così da farne uno dei pochi titoli di questa casa realmente adatto per un pubblico di tutte le età.

In pratica si narra di un dramma dell'idiozia. A una vegliarda parigina che è stata cantante d'opera resta un solo amico, un anzianissimo notaio, e riversa il suo affetto sulla sua gatta, Duchessa, e sui di lei tre micini (del padre nulla si sa). In un lampo di imbecillità, costei decide di fare dei felini gli eredi universali del suo patrimonio, lasciando al maggiordomo la effettiva capacità di disporre del lascito. Costui, però, rivela la sua incapacità di connettere e decide di sbarazzarsi dei gatti, innescando una serie di eventi che si risolveranno nella sua sparizione.

Duchessa avrà modo di incontrare il suo Romeo (che in italiano è romano e ha la voce di Renzo Montagnani) che, dopo una titubanza minimizzata per esigenze produttive, accetterà di fare anche da padre ai tre micetti (Minou, Bizet, Matisse).

Generazione X

C'è poco da girarci in torno, è proprio brutto. Scritto e diretto da Kevin Smith subito dopo Clerks, ne sembra una riscrittura borghesizzata, colorata, dotata di budget più sostanziale e mirata ad un pubblico più numeroso.

Al centro dell'azione non c'è più un negozietto ma un intero centro commerciale, da cui il titolo originale, Mallrats, dove i topi sono i ragazzetti che vi bazzicano senza comprare niente, che sarebbero poi la cosiddetta generazione X del titolo italiano.

Come protagonisti abbiamo un paio di amici, T.S. (Jeremy London) e Brodie (Jason Lee), equalmente incapaci di gestire la relazione con le loro ragazze, Brandi (Claire Forlani) e Rene (Shannen Doherty), anche se in modi molto diversi. Entrambi vengono mollati all'inizio del film, che narra il loro faticoso processo di farsi perdonare.

T.S. dovrà vedersela col padre di Brandi (Michael Rooker), che non ha tutti i torti nel nutrire qualche perplessità nei suoi confronti, mentre Brodie avrà il suo daffare nell'impedire che un piacente ma antipaticissimo venditore (Ben Affleck) gli soffi la sua bella.

Cameo di Stan Lee nei panni di se medesimo, Jay (Jason Mewes) e Silent Bob (Smith) sempre presenti come alleggerimento comico.

House of cards 1 - Capitoli 12, 13

La notizia è che sono riuscito ad arrivare in fondo alla prima stagione di House of cards. Tecnicamente ben fatto, si vede che ci hanno speso dietro dei gran bei soldoni, buon livello recitativo, non discuto, ma la storia non mi ha preso per niente. E il fatto che l'ultimo capitolo di stagione finisca con un telefono che suona e con una lunga serie di eventi che non vengono chiusi non contribuisce a migliorare il mio umore nei confronti di questo prodotto.

I due ultimi episodi sono stati affidati alla regia di Allen Coulter, un veterano delle serie televisive (molte puntate di Sex and the City e dei Soprano portano la sua firma) che ha fatto anche qualcosa per il cinema (vedi Hollywoodland) ma senza molto successo. Mi è difficile indicare una qualche differenza stilistica tra queste sue due regie e quelle dei suoi colleghi più blasonati che lo hanno preceduto (a partire dai primi due episodi diretti da David Fincher).

Si tirano le fila del gigantesco complotto concepito da Francis Underwood (Kevin Spacey) per vendicarsi di non essere stato nominato Segretario di Stato dal nuovo Presidente degli Stati Uniti, come gli era stato promesso. Si scopre che ad impedire la sua ascesa è stato un tal Raymond Tusk (Gerald McRaney), una specie di Warren Buffett che si è ritagliato un ruolo da eminenza grigia e consiglia (o meglio dire manipola) il presidente stesso all'insaputa di tutti (dettaglio piuttosto duro da digerire).

Si potrebbe pensare che almeno adesso si è finalmente trovato un degno antagonista a Francis, ma la speranza dura poco, si capisce subito che i due sono troppo simili caratterialmente per fornire una interessante contrapposizione. Piuttosto sono complementari, Raymond un imprenditore che usa la politica per i suoi scopi, Francis un politico che usa il potere economico.

La fronda interna capeggiata da Claire (Robin Wright), moglie di Francis ma che interessi propri, è durata ben poco. In compenso Gillian (Sandrine Holt), che era stata assunta da Claire con tante belle prospettive, si rende conto che è finita in una gabbia di matti. O meglio, che a Claire non importa un granché di quelli che dovrebbero essere i reali fini della sua azienda, ma è l'ennesima intossicata dal potere fine a se stesso.

Anche Zoe (Kate Mara), la giornalista che è stata usata da Francis per raggiungere alcuni risultati intermedi per il suo diabolico piano (oltre che a sbattersela a tempo perso), ha un soprassalto di buon senso, e sembra intenzionata a capire di più di quello che è successo.

Risulta dunque che l'unico personaggio capace di dare un qualche problema a Francis sia Peter Russo (Corey Stoll), ma che lo possa fare solo in absentia.

Starbuck - 533 figli e... non saperlo!

David (Patrick Huard), un quarantenne che non vuole accettare di non essere più un ragazzino, è ad un passaggio teso della sua vita. Lavora nella macelleria di famiglia con rendimento scarsissimo, ha un ingente debito che non sa come ripianare con tipacci poco malleabili, una fidanzata (Julie LeBreton) trascurata che scopre di essere incinta e decide che è meglio gestirsi la gravidanza da sola piuttosto che con un tipo così poco affidabile.

Come se tutto questo non bastasse, scopre pure che le numerose donazioni di sperma che aveva fatto venti anni prima per raggranellare qualche soldo gli hanno fruttato la numerosa progenie citata nel titolo italiano (Starbuck è il nome che l'istituto gli aveva dato per garantire la sua anonimità, ed è un riferimento ad un toro da monta canadese).

Fino ad un attimo prima aveva paura ad affrontare la nascita di quello che pensava fosse il suo primo figlio, ora si trova in mano le schede dei cento e più ventenni che fanno causa all'istituto per sapere chi sia il loro padre biologico.

La curiosità prevale e David contatta anonimamente alcuni suoi figli, scoprendo che, nonostante quello che lui avrebbe mai pensato, aveva dentro di sé la capacità di essere un buon padre.

Inizialmente gli sceneggiatori (Ken Scott e Martin Petit, il primo anche regista) avevano pensato che il loro David fosse padre di un centinaio di bambini, e già temevano che risultasse eccessivo. Poi invece hanno scoperto che casi simili sono relativamente comuni e che c'era anche un donatore inglese che superava quota cinquecento. Questo li ha spinti a modificare i numeri verso l'alto.

Nonostante il tema piuttosto rischioso, lo sviluppo della trama evita grossolanità mantenendo un umorismo leggero senza cadere nemmeno in facili sentimentalismi. Qualche lentezza, qualche scena poco riuscita, ma tutto sommato una commedia che scorre via bene.

Il buon successo in patria (che sarebbe poi il Canada) ha portato alla generazione di remake in Francia, India (mi chiedo come sia questa versione made in Bollywood), e naturalmente negli USA.

Signora per un giorno

Il racconto originale è di Damon Runyon, giornalista che ben conosceva il sottobosco criminale newyorkese, e si sposa a meraviglia con la poetica di Frank Capra, un curioso cocktail tra realtà e favola che miracolosamente riescono a convivere senza pestarsi i piedi.

Robert Riskin, che ha scritto la sceneggiatura, ha collaborato a lungo con Capra, il loro sodalizio ha portato ad una dozzina di titoli, è questo è uno tra i titoli più amati dal regista, al punto che ha deciso di farne un remake trenta anni dopo, Angeli con la pistola, con cui si è congedato dal cinema.

Tra gli attori, l'unico volto che mi dice qualcosa è quello di Apple Annie, ruolo che nel remake sarà preso da nientemeno che Bette Davis. Qui è interpretato da May Robson, che sarà la zia della protagonista (Katharine Hepburn) in Susanna.

Si narra dunque di Annie, una vecchia pezzente ubriacona che sopravvive a Manhattan vendendo mele ai passanti. Tra i suoi clienti c'è un capobanda della piccola criminalità locale, Dave "lo sciccoso", in originale "the dude", (Warren William) che per qualche motivo si è convinto che comprare una mela ad Annie prima di un qualche affare complicato gli porti fortuna.

Annie ha un segreto. Una figlia, Louise (Jean Parker), avuta una ventina di anni prima in circostanze misteriose, che ha spedito in Spagna perché crescesse lontano dalla sua miseria, contando presumibilmente sul fatto che i pochi denari che lei riusciva a raccogliere con la sua grama vita bastassero a mantenerla nel Vecchio Continente (il punto sarà meglio chiarito nel remake). Alla piccola Annie ha raccontato fole per tutta la vita, scrivendole lettere su carta intestata rubata ad un albergo di gran classe, facendole credere di essere una dama di gran classe che l'ama sì, ma a distanza.

Prima o poi i nodi vengono al pettine. Louise si sta per sposare con il figlio di un conte spagnolo, e tutti e tre vengono a New York per chiarire i dettagli del matrimonio. La povera Annie non sa più che pesci pigliare, potrebbe mai capire la figlia che quella stracciona rovinata dall'alcolismo è la sua favoleggiata madre? E come spiegarlo al futuro marito e al di lui padre?

Gli amici di Annie hanno un idea. Dave, che è sempre così ben vestito, che ha sempre soldi, che sembra così importante, avrà certamente una soluzione. Ma Dave in realtà è solo un piccolo delinquente superstizioso, e tutto quello che gli interessa di Annie è solo che gli venda una mela.

O almeno, questo è quello che pensa lui.

Messo nella situazione di scegliere se lasciar affondare Annie o doversi imbarcare in una impresa assurda, ci pensa un attimo ma poi decide per la seconda alternativa.

Rapidamente viene creata una costruzione fantastica in cui Annie viene convertita nella dama dell'alta società che la figlia si aspetta, con annessi e connessi. Una impalcatura complicata che rischia di cadere al primo soffio di vento, anche perché viene sostenuta con i metodi non proprio ortodossi di Dave e della sua gang.

La catastrofe sembra inevitabile, ed arriviamo ad un punto che solo un miracolo, anzi due, potrebbero evitarla. Fortuna che nei film di Frank Capra anche l'improbabile riesce a trovare il suo spazio.

Upside down

Gli abusi gastroenologici e la necessità di accontentare il pubblico casalingo limitato ma piuttosto variegato delle festività comandate spingono a non andare troppo per il sottile nella selezione di un film postprandiale.

Non credo ci possano essere altri motivi che possano spingere ad una seconda visione di questo titolo.

La storia (scritta e diretta da Juan Solanas) può essere descritta in vari modi, a seconda del gusto dello spettatore. Me ne vengono in mente quattro.

A) Amore contrastato. Eden (Kirsten Dunst) e Adam (Jim Sturgess) si amano, qualcosa si mette in mezzo, Adam patisce tutto il patibile (Eden un po' meno) ma alla fine, grazie anche ad un insperato aiuto (Timothy Spall), tutto finisce bene.

B) Contrasti sociali. Eden è una privilegiata che vive nel mondo dei ricchi. Adam è un poveretto che vive nel mondo dei miserabili. L'unica forza che può mettere fine a questa ingiustizia è l'amore.

C) Critica economica. Una perfida multinazionale sfrutta i poveri a vantaggio dei ricchi. L'amore farà sì il modello economico cambi.

D) Fantascienza. Due pianeti formano un bizzarro sistema binario, ognuno dei quali è governato da una propria legge di gravità. Su entrambi i pianeti ci sono umani, ma non possono interagire propriamente a causa di questo problema. L'amore riuscirà a sconfiggere anche la forza di gravità.

E' possibile tenere assieme così tante e diverse chiavi di lettura? Probabilmente sì, ma non in questo caso. Quella che se la cava meglio è (A), anche se finisce per essere una lettura ben poco soddisfacente per mancanza di novità. (B) viene usata con molta parsimonia, come se non si volesse dar troppo fastidio allo spettatore con un tema così problematico. (C) mi sembra che qui abbia il solo scopo di alleggerire ulteriormente la coscienza dello spettatore, come a dire, guarda che non è colpa tua se la tua condizione ti ricorda quella di Eden e ti viene il dubbio che da qualche parte ci sia un Adam che patisce, la colpa è tutta di qualcun altro. (D) è più che altro un pretesto per usare simpatici effetti speciali, e magari anche per distogliere ancor di più l'attenzione da (B).

In cerca di Amy

Per quanto ne so, questo film di Kevin Smith da noi non ha trovato spazio al cinema ed è passato direttamente in DVD. Non è sorprendente, visto la sorte che hanno avuto altri suoi titoli, in particolare Dogma, che hanno faticato a trovare una distribuzione italiana a causa delle tematiche trattate e del linguaggio esplicito utilizzato.

La storia è quella di Holden (Ben Affleck) che si innamora di Alyssa (Joey Lauren Adams), si mettono assieme, ma quando scopre un dettaglio sul suo passato che lo inquieta decide di rompere, per poi scoprire che ha fatto una sciocchezza, pensa di aver capito quale sia il problema, propone una soluzione, che però si dimostra essere ancora più scema, con conseguente catastrofe. Ad addolcire il finale viene lasciato uno spiraglio su una possibile ricomposizione della coppia.

Sembra dunque una classica commedia romantica, a parte l'assenza di un vero e proprio happy ending. A sconvolgere il quadro ci pensano alcuni elementi al contorno.

Alyssa è lesbica, ma questo non è un grosso problema per Holden, quello che lo sconvolgerà sarà scoprire che quando era una ragazzina ha pure avuto trascorsi piuttosto burrascosi con l'altro sesso. Questo dettaglio, che può apparire strano, si spiega bene con la convinzione di Holden secondo cui il sesso tra donne non sia "vero".

Holden scrive e disegna fumetti assieme a Banky (Jason Lee) da una ventina d'anni, e nella loro relazione si intravede qualcosa di morboso, come se Banky abbia una attrazione omosessuale per Holden che però non è chiara nemmeno a lui.

Il fumetto che Holden e Banky scrivono è basato sulle avventure di Jay e Silent Bob (Jason Mewes e lo stesso Kevin Smith), e i due fanno ad un certo punto irruzione nell'azione, con la loro solita carica eversiva. In particolare, Silent Bob sarà qui ben poco silenzioso, scodellando il monologo che spiega il titolo del film e chiarisce il senso di tutta la storia.

Un amico di Holden, Hooper X (Dwight Ewell), è un gay di colore che fa fumetti estremisti (il suo nome dovrebbe essere un riferimento a Malcom X) in cui non crede mica tanto, ma che gli ritagliano un adeguato spazio commerciale.

Camei per Casey Affleck e Matt Damon.

Suxbad: Tre menti sopra il pelo

Judd Apatow appare solo come produttore, ma è il nome che bisogna tener presente per identificare rapidamente il tipo di umorismo che permea questa commedia giovanilistica. Piuttosto maschilista, decisamente sboccato, scorretto ma anche molto divertente. Almeno per chi ne riesca ad accettarne la apparente ruvidezza. Ma conviene non lasciarsi ingannare dal titolo italiano, l'originale è un semplice Superbad, la guida creativa del film non vola così basso come si potrebbe temere.

La regia è di Greg Mottola, che qualche anno dopo dirigerà Paul, della premiata coppia Simon Pegg & Nick Frost, la sceneggiatura è di un'altra coppia di amici nel mondo del cinema, Seth Rogen & Evan Goldberg. Il primo si è anche ritagliato un ruolo secondario nella storia.

La storia è incentrata su una coppia di amici piuttosto sfigatelli Evan e Seth (Michael Cera e Jonah Hill - che caso, i personaggi hanno i nomi degli sceneggiatori) che stanno per finire le superiori e iniziare la loro carriera universitaria. In realtà ci sarebbe un terzo elemento della combriccola, Fogell (Christopher Mintz-Plasse) ma costui è così sfigato che persino loro se ne vergognano.

L'azione può avere inizio grazie al fatto che la bella Jules (la debuttante Emma Stone) invita a una di quelle dirompenti feste minorili Seth, che si offre di comprare i necessari alcolici. Necessari e irraggiungibili, visto che sono minorenni.

Fortuna (?) vuole che Fogell riesca a farsi fare una patente falsa. Purtroppo Fogell decide di assumere l'assurdo nome di McLovin (niente nome di battesimo, solo McLovin) e dichiarare una assolutamente improbabile età di 25 anni, seguendo il ragionamento che se avesse dichiarato il minimo necessario (21 anni) avrebbe dato troppo nell'occhio.

Da qui, seguono una serie di incredibili accadimenti con Seth & Evan che conoscono un piccolo delinquente (Joe Lo Truglio) che li porterà ad una malfamatissima festa, mentre Fogell farà amicizia con un paio di bizzarri agenti (Bill Hader e Seth Rogen) che lo trascineranno in giro per la città.

Bello il finale, in cui Seth e Evan riescono a far evolvere la loro amicizia, e persino (forse) a trovarsi ognuno una fidanzata.

Troppo amici

Un colp(ett)o di scena nel finale cambierà completamente la prospettiva del film, che si rivelerà essere narrato in flashback seguendo l'inaspettato punto di vista di quello che, fino a quel momento, sembrava essere un personaggio minore, e nemmeno tra i più simpatici.

Conviene non farsi ingannare dal titolo italiano, che crea un riferimento a Quasi amici con il solo scopo di attirare lo spettatore distratto. Anche perché quel film in originale si intitolava Intouchables e questo Tellement proches. Bizzarria ancor maggiore è che da noi è arrivato con tre anni di ritardo, appunto per sfruttare il successo di Quasi amici, scritto e diretto dalla stessa coppia di autori, Eric Toledano e Olivier Nakache. Poco altro hanno in comune i due lavori, come ad esempio la presenza di Omar Sy, che comunque interpreta due ruoli molto diversi.

La storia è quella di due sorelle (una è l'Isabelle Carré di Emotivi anonimi, l'altra Joséphine de Meaux che sarà anche in Quasi amici) e un fratello attaccati al punto che la sorella non ancor sposata (la de Meaux) sottopone al loro vaglio gli uomini con cui esce (nel caso particolare Sy) per valutare se sia il caso di procedere o meno.

Le complicate vicende delle tre coppie sembrano destinate a rendere impossibile un qualunque equilibrio, eppure, miracolosamente, si giungerà ad una stabilità finale propiziata dall'ennesima marachella di uno dei figli.

Royal affair

Il taglio con cui viene presentato il racconto è quello romantico, ma è solo uno stratagemma per non spaventare lo spettatore. Infatti la passione che agita i cuori dei protagonisti non è tanto quella amorosa quanto quella politica, che non è argomento che goda di questi tempi di un appeal particolarmente elevato.

Si narra un episodio storico ben noto ai danesi, così conosciuto che Nikolaj Arcel (regia e sceneggiatura non originale in combutta con il fido Rasmus Heisterberg) ha deciso giustamente di tagliare tutto quanto non fosse strettamente necessario allo sviluppo della storia, lasciando casomai l'approfondimento come esercizio per lo spettatore interessato. D'altronde la complicazione della vicenda fa sì che anche così la durata del film superi tranquillamente le due ore.

Quasi ancora bambina, l'inglese Carolina Matilde (Alicia Vikander) viene data in sposa al giovanissimo re di Danimarca Cristiano VII (Mikkel Boe Følsgaard) che mostra già segni di squilibrio mentale. Le cose peggiorano rapidamente, e la salute del re viene affidata a Johann Friedrich Struensee (Mads Mikkelsen) un medico tedesco la cui bravura fa sì che si chiuda un occhio sulle sue idee illuministe (siamo nel tardo settecento).

Struensee vince la fiducia del re, che in pratica gli lascia carta bianca per fare tutto quello che vuole. La regina scopre di avere anche lei una certa passione per l'illuminismo (oltre che per il buon dottore), e i due diventano la effettiva coppia regnante.

Questo primo e anomalo esperimento di monarchia illuminata è destinato al fallimento. I nobili esautorati si coalizzano dietro alla figura della regina madre (Trine Dyrholm), sfruttano la debolezza di Cristiano, e riescono tornare in sella.

Carolina Matilde riuscirà comunque ad averla vinta (almeno nel film) riuscendo ad ispirare un colpo di coda che si realizzerà ad anni dalla sua morte.

Anchorman - La leggenda di Ron Burgundy

E' uno di quei film che promette quello che mantiene, basta leggere chi l'ha fatto. Prodotto da Judd Apatow (che poi dirigerà cose come 40 anni vergine e Molto incinta), diretto da Adam McKay, che l'ha anche scritto assieme a Will Ferrell che, a sua volta, è anche il protagonista a cui si allude nel titolo.

Lecito dunque aspettarsi una commedia di grana grossa, qualcosa che sta tra Mel Brooks e il trio Zucker-Abrahams-Zucker (aerei pazzi, pallottole spuntate). Ed è proprio così. Ho riso più volte, anche se devo ammettere che preferirei non entrare nei dettagli di alcune scene.

Anni settanta a San Diego. Ron Burgundy (Ferrell) è il conduttore delle news di una rete locale, pieno di sé e piuttosto scemo che, per gli insondabili motivi della celebrità televisiva, ha un travolgente successo. Con i tre colleghi con cui va in onda, interpretati da Paul Rudd (quello bello), David Koechner (il bovaro), e Steve Carell (che ammette candidamente di avere un quoziente intellettivo tendente allo zero), c'è un rapporto di amicizia e cameratismo che li lega profondamente.

Arriva però Veronica Corningstone (Christina Applegate), assunta per cercare di dare una immagine più moderna al programma. I quattro reagiscono amabilmente, cercando di farla scappare a gambe levate. Lei però si aspettava già una reazione del genere, e li riesce a tenere a bada. O meglio, riuscirebbe, se non capitasse che Ron e Veronica si innamorino, con conseguenti sviluppi.

I vari accadimenti che seguono, coinvolgono una gran serie di personaggi minori interpretati da noti attori, il che crea un aggiuntivo effetto comico. C'è ad esempio Vince Vaughn nel ruolo dell'arcinemico di Ron, Danny Trejo (Machete) barista che dà miti consigli al cliente alcolizzato in crisi, Jack Black motociclista antianimalista, Ben Stiller giornalista ispanico.

Mi è piaciuto come sono riusciti nel film a mitigare l'antipatia che ispirano naturalmente i protagonisti dando loro una bizzarra simpatia (in fin dei conti sono solo scemi, non sono cattivi). Meno riuscite quelle scene che svisano nel demenziale, e rovinano l'effetto di un racconto che, pur essendo esagerato per amor di effetto comico, sarebbe tutto sommato quasi realistico.

House of cards 1 - Capitoli 10, 11

Questi due episodi vedono alla regia Carl Franklin ma, come al solito, non è che il regista abbia molta voce in capitolo. Il tono della narrazione si mantiene nei canoni impostati da David Fincher nei primi due capitoli.

Il diabolico piano di Francis (Kevin Spacey) viene finalmente esplicitato. Il povero Peter Russo (Corey Stoll) pensava di correre davvero per la carica di governatore della Pennsylvania, ma non era altro che un'esca per un trappolone rivolto a qualcuno ben più in alto di lui.

Capita però che Francis abbia malcalcolato la pazienza delle donne, sia la moglie Claire (Robin Wright) sia la giornalista/amante Zoe (Kate Mara). Entrambe si imbizzarriscono per come sono trattate, si beccano tra loro e poi gli tengono il broncio, rendendogli la vita più complicata.

Questo avviene nel capitolo decimo che, nonostante le premesse, mi è parso tra i più noiosi della serie. Tutto si svolge secondo binari predeterminati.

Non che mi sia emozionato di più con l'undicesima puntata, ma almeno si chiude una trama, quella del povero Peter, e la sua uscita di scena ha un certo interesse. In precedenza il personaggio era stato fatto crescere fino quasi raggiungere il livello di un polo contrastante al protagonista indiscusso. Ora si chiarisce che il suo ruolo è quello del (relativo) innocente che viene barbaramente sacrificato per ottenere un risultato. Viene quasi automatico pensare che in qualche modo la sua fine potrebbe infettare Francis, e portargli più in là a grossi problemi.

Parentesi newyorkese per Claire che abbandona il tetto coniugale mostrando ancora di non essere poi convintissima di come abbia impostato la sua vita. Purtroppo per lei, finirà per tornare all'ovile.

Un poliziotto da happy hour

Grazie anche ad un titolo italiano tra i più improbabili (in originale era The guard), dalle nostre parti è passato praticamente inosservato. Vero è che ha le sue spigolosità, e non difficile trovarsi spiazzati dalla sua impostazione in bilico tra commedia e dramma. Però avrebbe meritato una accoglienza migliore.

E' il primo lungometraggio scritto e diretto da John Michael McDonagh (fratello del più famoso Martin, che qui fa il produttore esecutivo), un decennio dopo l'esperienza di Ned Kelly (che viene tra l'altro citato di sfuggita) dove aveva adattato per lo schermo la biografia di quel Robin Hood australiano-irlandese. Nonostante il budget limitato si avvale di un cast notevole, centrato su Brendan Gleeson con il supporto di Don Cheadle.

La struttura del racconto è quella classica del buddy movie poliziottesco, con la strana coppia dei due protagonisti che si vede costretta ad affrontare congiuntamente un caso, con il solito cozzo di personalità. La sfida di McDonagh è quella di trattare questa cellula iniziale in modo personale, mescolando temi diversi, non lasciando troppo tempo allo spettatore l'appiglio di uno stereotipo a cui attaccarsi.

Si narra di Gerry Boyle (Gleeson), poliziotto irlandese ormai a fine carriera, che sembra essersi reso conto di aver sprecato la sua vita e che non abbia bene idea di cosa farsene degli anni che gli sono rimasti. In attesa di avere una illuminazione, beve, consuma droghe, ogni tanto noleggia un paio di prostitute. Non ha affetti, se non la vecchia madre (Fionnula Flanagan) a cui non resta molto da vivere.

Capita però che alcuni trafficanti di droga, capitanati da un irlandese (Liam Cunningham) che ha creato un gruppetto composito che include un delinquente inglese in crisi esistenziale (Mark Strong) e uno psicopatico (David Wilmot), anzi sociopatico, come tiene a precisare, anche se non sa bene nemmeno lui quale sia la differenza, abbia pensato di usare proprio il paesino dove opera Gerry come base per scaricare un ingente partita di cocaina. Per qualche motivo, l'FBI ritiene il caso abbastanza importante da dedicare un singolo uomo (Cheadle) alla faccenda.

Alcune trame minori concorrono a rendere lo sviluppo meno rettilineo, includendo cose come un collega di Gerry che ha un matrimonio di convenienza con una donna est europea, un bambino ficcanaso sempre fra i piedi, un fotografo dilettante attratto dal macabro, paesani gaelici molto xenofobi, residuati della lotta indipendentista irlandese.

A dominare la storia è la figura di Gerry, e la battuta chiave, ripetuta due volte, è quella che (non) lo definisce. E' un imbecille, si chiede il suo collega americano, o un fottutissimo genio? Azzarderei che, un po' come tutti gli umani, anche lui è una misteriosa e male assortita combinazione di caratteristiche contrastanti.

Solo Dio perdona

Bisognerebbe scrivere sulla copertina del DVD una avvertenza per il potenziale spettatore che si tratta di un film di una lentezza esasperante. Il mio primo tentativo di visione si è concluso dopo mezz'ora, causa assopimento. Qualcosa del tipo, "Apprestarsi alla visione dopo aver consumato adeguate dosi di caffeina".

Come si può aspettare chi abbia visto il precedente titolo di Nicolas Winding Refn, Drive, il dialogo è ridotto al minimo, o anche meno. Molto è affidato alla visualità dell'opera, qui la curatissima fotografia è affidata a Larry Smith, e alla componente sonora, la bella colonna sonora ancora di Cliff Martinez.

La regia è molto citazionista, non ho potuto fare a meno di pensare a Shining e a Eyes wide shut (fra l'altro poi ho scoperto che è stato il battesimo della cinepresa per Larry Smith) di Stanley Kubrick, una certa tendenza all'introspezione psicologica alla David Lynch, un riferimento che mi pare esplicito alla fisicalità e alla violenza di David Cronenberg.

La storia va messa insieme raccogliendo con pazienza gli indizi sparsi dallo sceneggiatore (sempre Refn) con gran parsimonia nei rari colloqui e raccontata dal regista per mezzo di sguardi e montaggi alternati. Riassumendo, Julian (Ryan Gosling) è un povero diavolo di origine americana che ha avuto la disgrazia di nascere in una famiglia di delinquenti. Una decina di anni prima, la terribile madre (Kristin Scott Thomas, interpretazioni tra le sue migliori) lo ha spinto ad uccidere il padre, probabilmente per conflitti di potere, convincendolo poi che l'unica cosa che gli restava fare era andarsene a Bangkok, Thailandia a gestire una succursale malavitosa sotto la copertura di una palestra del pugilato locale.
Nonostante il tiro mancino, Julian ha comunque un forte legame con la madre, che riemerge quando lei arriva in città, intenzionata a scoprire cosa abbia portato alla morte Billy (Tom Burke), suo figlio primogenito, a cui sembra fosse molto più attaccata di Julian.
Dietro alla morte di Billy c'è un poliziotto thailandese in pensione (Vithaya Pansringarm) che sembra aver manie da vigilante e il deplorevole hobby di cantare canzonette melense in night club.
Julian pensa che Billy ha avuto quello che meritava, sua madre non è per niente d'accordo, seguono una serie di traversie, che porteranno alla rottura (finalmente!) del morboso legame madre/figlio, anche se ad un prezzo molto alto per tutti.

Ned Kelly

Il Ned Kelly storico di cui è qui narrata la vicenda era forse meno fascinoso di Heath Ledger, che qui lo interpretò, e sicuramente non proprio quella brava persona trascinata dalle circostanze che viene descritta dalla sceneggiatura (di John Michael McDonagh, fratello di Martin) e dalla regia (Gregor Jordan).

Però si tratta di una specie di mito nazionale australiano, una specie di incrocio tra Robin Hood e Jesse James, e come tale è stato qui trattato, glissando su alcuni aspetti meno presentabili e sottolineando con fin troppa decisione gli altri.

Il Ned che risulta è un candido agnellino nato in un ambiente sfavorevole (babbo galeotto, origine irlandese e in quanto tale pesantemente discriminato) che subisce una serie impressionante di ingiustizie e alla fine si ribella. Che fra l'altro, nella sostanza, è tutto vero, a parte il dettaglio che il manto non era propriamente candido, e forse gli starebbe stato meglio la pelliccia del lupacchiotto.

Ned viene accusato ingiustamente di aver picchiato una guardia. Lui avrebbe l'alibi, in quel momento era in compagnia di Julia (Naomi Watts), una gentil dama che però è sposata con prole. Sceglie dunque di scappare con un piccolo seguito (tra cui Orlando Bloom). Inseguito da un sopraintendente molto bellicoso (Geoffrey Rush), riesce a farla franca per un certo tempo contando sia sulla solidarietà irlandese, sia sui proventi di alcune rapine in banca.

Rendendosi conto che non può evitare lo scontro indefinitamente, Ned pensa ad un piano diabolico un po' alla Mucchio selvaggio. Le cose però non vanno esattamente come aveva preventivato.

Già all'inizio del film c'è una scena che spiega molto sul taglio che è stato scelto per narrare la vicenda. Il marito di Julia non riesce a domare un cavallo e decide di abbatterlo. Ned si offre di provarci lui, ma gli viene detto che è inutile. Il cavallo è comunque "cattivo" e non ha senso spenderci tempo. Evidente parallelo con la condizione degli irlandesi in Australia a quei tempi. Considerati "cattivi" (erano in genere galeotti mandati a scontare la pena dall'altra parte del mondo), non si vedeva il senso di andare troppo per il sottile.