The wrestler

Qualcuno deve aver detto a Darren Aronofsky che il suo precedente L'albero della vita era fin troppo cerebrale, e che avrebbe dovuto fare qualcosa meno involuto.

Detto fatto. Ecco qua il capitolo finale della vita di un wrestler (Mickey Rourke), raccontata come se fosse un documentario con una telecamera a mano che lo segue, così che gran parte del tempo lo vediamo solo di spalle. Colori stinti, luci fredde, atmosfere desolanti, potrebbe far pensare ad un mockumentary, se da ridere non ci fosse molto poco, praticamente niente, se non i fantasiosi nomi di battaglia dei colleghi sul ring.

A me il wrestling non è mai piaciuto, e non tanto per il suo essere completamente finto (cosa c'è di più finto del cinema?) ma per la truculenta banalità del racconto inscenato sul ring. Qui però lo si osserva non dal punto di vista dello spettatore, ma degli attori/atleti, ormai ridotti ad esibirsi su palcoscenici di uno squallore da brivido. E ad emergere non sono solo i meccanismi di questa strana disciplina, quanto il parallelo tra questa attività e il funzionamento della nostra società.

Quello che è successo è infatti che Randy the ram si è a tal punto immedesimato nel suo ruolo di wrestler, da non avere più niente nella sua vita all'infuori di quello. Ha una figlia (Evan Rachel Wood) di cui non sa praticamente nulla, e pensa di avere una possibile relazione con una prostituta (Marisa Tomei).

Può cambiare? Può dimenticare il suo passato e pensare ad un futuro? Potrebbe. Ma sarebbe molto difficile, molto più difficile che combattere su un ring (e non che sia una cosa alla portata di tutti, come ci viene mostrato con dovizia di particolari raccapriccianti).

Gran parte dell'azione se la mangia Rourke, la Tomei ha modo di farsi vedere (ehm, non solo nel senso più esplicito del termine), ma la Wood ha una particina proprio piccola.

Dato lo stile simil-documentaristico del film, c'è poco da dire sulla colonna sonora, basata sulla musica che gira intorno all'azione. Notevole eccezione, sui titoli di coda va The wrestler di Bruce Springsteen, evidentemente scritta proprio per il film.

Margin call

Scritto e diretto da J.C. Chandor, al suo primo lungometraggio ma che deve avere amicizie notevoli, visto che è riuscito a convocare un cast decisamente interessante, e la conferma viene dai ringraziamenti nei titoli di coda, dove vengono citati un sacco di grossi nomi, tra cui JJ Abrams e Steven Spielberg. Secondo mojo, il film è costato una miseria (per i canoni del cinema americano) ed è andato relativamente bene, anche se mi sarei aspettato un risultato anche migliore, sia per la storia narrata (Chandor s'è beccato una nomination all'Oscar per la sceneggiatura), sia per il risultato complessivo.

Sembra che Chandor abbia molti amici, pochi soldi, e buone idee. L'opposto dei personaggi del suo film, che hanno molti soldi, poche idee (in genere relative a come fare soldi), e poca o niente vita fuori dal lavoro.

Si parla dell'ultimo tracollo finanziario, quello da cui non ci siamo ancora ripresi, dal punto di vista di una di quelle finanziarie che hanno imbottito il mercato di titoli tossici creando la catastrofe. Consigliata la visione abbinata di The bank (del 2001) e di Wall Street per scoprire come il perfido capo della baracca (Jeremy Irons, come sempre a suo agio in ruoli di questo tipo) non abbia poi tutti i torti quando dice che nessuno può fare l'animo candido, visto che bisognava avere le bistecche sugli occhi per non vedere la (ennesima) catastrofe in arrivo.

Inizio fulminante, in cui ci viene fatta vedere una di quelle operazioni di draconiana potatura del personale che non sono insolite negli USA (vedi Tra le nuvole). Tra gli altri viene mandato a casa un tale (Stanley Tucci) che ha diciannove anni di anzianità aziendale, gli viene comunicata la notizia, gli si danno cinque minuti per prendere la sua roba, e via. Il suo capo (Paul Bettany) è dispiaciuto, ma si capisce che ha visto ben di peggio. Uno tra i suoi sottoposti (Zachary Quinto, Spock del reboot di Star Trek, a mio parere il meno convincente nel gruppo dei personaggi principali) lo ringrazia per il lavoro fatto assieme e lui gli dice di dare un'occhiata al progetto a cui stava lavorando, e che ha dovuto abbandonare così brutalmente.

Fatto è che il progetto era una valutazione della esposizione del rischio che l'azienda si era accollato nella gestione di un loro prodotto finanziario molto remunerativo ma pestilenziale. Il risultato del suo lavoro è che il prodotto non vale nulla, e loro, che ne hanno in gran quantità, sono esposti per una cifra di gran lunga superiore al valore dell'intera società.

Quinto espone la situazione a Bettany, Bettany chiama il suo capo (Kevin Spacey), che a sua volta notifica il suo capo (Simon Baker, anche lui non mi ha convinto), che chiede lumi a chi a progettato quella schifezza di prodotto (Demi Moore) la quale deve ammettere che in effetti avere in cassa quella robaccia è una pessima idea. A questo punto è notte fonda, ma viene convocato il super-capo (Irons) che trova la soluzione al problema: scaricarlo su altri.

Il gergo finanziario è stato limitato al minimo necessario, spostando l'accento dai dettagli tecnici a quello che è il succo del problema: i soldi che girano in quell'ambiente sono molti ma sono basati sull'aria fritta. Ma va bene a tutti così, in primo luogo a chi si ingrassa vendendo il nulla a prezzi astronomici ma, come fa notare il personaggio di Bettany, anche ai "comuni mortali", a cui questi giochi di finanza creativa fanno comodo, finché non ci picchiano il naso.

The cooler

Un po' come il signor Malaussène di Pennac, incrociato allo iettatore professionista de La patente di Pirandello (ripreso sul grande schermo da Totò), il raffreddatore (William H. Macy) è un tizio che gira tra i tavoli di un casinò a terminare le serie positive dei giocatori. A pagarlo, ma neanche tanto, è il direttore (Alec Baldwin), fautore del gioco d'azzardo vecchio stile, al punto da gestire l'ultima casa da gioco a Las Vegas che ancora non si sia trasformata in un parco giochi.

La storia, co-scritta e diretta da Wayne Kramer non è così profonda e interessante come gli esempi sopra citati, ma ha comunque un suo interesse. È il secondo film che vedo di Kramer, e questo è il suo primo "vero" lungometraggio. In comune con Running c'è una sceneggiatura molto densa di particolari, in cui molta attenzione è dedicata anche ai comprimari e ai personaggi secondari.

La trama naviga sul conflitto tra Macy e Baldwin, nato dal fatto che il primo se ne vuole andare, stufo di quella vita, ma il secondo lo ritiene un asset troppo importante per la sua attività, e cerca in ogni modo di trattenerlo. La situazione viene complicata in primo luogo dall'entrata in gioco di Maria Bello che, incongruamente (o forse no), si prenderà una cotta per il catalizzatore di sfortuna aziendale. Ma capita anche che gli investitori non siano poi così contenti della gestione vecchio stile di Baldwin, e gli affianchino un giovane squaletto dalle idee molto moderne. E succede pure che piombi in città il figlio di Macy, da lui abbandonato con la madre tempo prima. E altri fatterelli minori.

Interessante il parallelo con Casinò di Scorsese, anche se qui direi che il punto principale è nel personaggio di Macy, del suo essere sfortunato perché non si sente amato, e non, come pensa lui, di non essere amato perché sfortunato.

Running

A proposito di film dal ritmo indiavolato, questo lo è a tal punto che la distribuzione italiana ha pensato bene di dimezzare il titolo originale (Running scared) per dare ancor più l'idea di quanto lo sia. O forse è la solita decisione inesplicabile di non si sa chi.

In ogni caso, il film dura un paio d'ore, ma con un montaggio meno frenetico direi che si poteva aggiungere tranquillamente un'altra ora. La storia in sè (scritta e diretta da Wayne Kramer) è minimale, si narra quasi in tempo reale una frenetica serata della famiglia Gazelle (con un nome del genere, per forza di corre tutto il tempo), composta da capofamiglia (Paul Walker), figura secondaria di quella che sembra una famiglia mafiosa italoamericana, moglie (Vera Farmiga) tipetta che è opportuno non far arrabbiare, figlio discolo che fa amicizia col nemico, nel senso del figlio dei vicini di casa, legati alla mafia russa. Ci sarebbe anche il Gazelle senior, ma è ridotto molto male (e una delle innumerevoli digressioni ci spiegherà rapidamente come mai). La vendita di una partita di droga finisce male, causa l'intervento di poliziotti corrotti, dove per male si intende una carneficina tarantiniana (lo spirito di Quentin aleggia in più scene), Gazelle e il suo capo si salvano, e il primo ha il compito di far sparire le armi diventate bollenti. L'amico del figlio, però, scippa una pistola e tenta con quella di ammazzare il padre (Karel Roden), un tipaccio che in Russia aveva il mito di John Wayne - lo ha tatuato sulla schiena - di cui conosceva solo un film (I cowboys, quello in cui è l'unico adulto alla guida una masnada di ragazzetti che portano bestiame in città) in una versione lampo, un rullo da dieci minuti in superotto, e che è rimasto malissimo nel vedere la versione completa una volta arrivato negli USA. La missione di Gazelle è ritrovare la pistola prima che la trovi la polizia, e in particolare il capo dei corrotti (Chazz Palminteri).

Quanto scritto sopra è praticamente nulla rispetto a quello che capita nelle due ore. Ad esempio, in tutto ciò che diamine c'entra un magnaccia violento? o una coppia di pedofili/assassini seriali alto-borghesi? un meccanico ispanico? sadici giocatori di hockey? Troppo complicato da spiegare.

Il personaggio principale sarebbe quello di Walker, ma in realtà ha poco tempo per recitare, è troppo impegnato a correre (e sono cavoli suoi, visto che ha una piccola scena di sesso la Farmiga che viene interrotta per la cena, e quindi cancellata), ne approfittano i personaggi secondari, soprattutto Farmiga e Roden, ma anche Palminteri ha modo, nei pochi secondi a disposizione, di imbastire un bel personaggio di poliziotto corrotto e carogna.

Mission: Impossible - Protocollo fantasma

La storia è presto detta, il mondo è sull'orlo della distruzione ad opera di un pazzoide (Michael Nyqvist) e solo l'agente Hunt (Tom Cruise), a capo di un manipolo di eroi, potrebbe riuscire a salvarlo. L'azione inizia in un carcere russo, da cui viene fatto evadere il protagonista, ci si sposta al Cremlino, che viene violato e fatto esplodere, alla faccia del KGB, poi nel Dubai per giocherellare con il Burj Khalifa, quindi a Mumbai e finalino a Seattle.

Solita roba che ci si può aspettare in un M:I, o uno 007, o un Bourne, eccetera. Un paio d'ore che scorrono via leggere tra spari, scazzottate, uso di gadget improbabili (ma divertenti), e cartoline dal mondo.

Teoricamente la regia è di Brad Bird, una carriera nelle animazioni (Il gigante di ferro che mi era molto piaciuto, Gli Incredibili) al primo lungometraggio con attori in carne ed ossa, ma c'è da credere che il film sia più che altri di Cruise, che è anche tra i produttori (pure con J.J. Abrams). Divertente la variazione sul tema della tecnologia che funziona poco, che sposta leggermente il baricentro del film verso la commedia, contando sul ritorno di Simon Pegg, già presente nel precedente episodio, e che conquista notevole spazio con il suo carattere. A fare da spalla al protagonista nelle scene di azione arrivano Jeremy Renner (che sarà nel prossimo Bourne, senza Damon) e Paula Patton. Il cast globalizzato include oltre al cattivo svedese Nyqvist, anche la francese Léa Seydoux, temibile killer che per un pugno di diamanti è disposta a tutto, e la star di Bollywood Anil Kapoor.

Apparizioni lampo per Tom Wilkinson, capo della oscura organizzazione di Hunt, anche se non lo avevamo mai visto prima (e non lo vedremo nei prossimi M:I, temo per lui) e Michelle Monaghan, moglie di Hunt nell'episodio precedente.

Molto forte, incredibilmente vicino

Altra regia di Stephen Daldry che, come quella di The reader, sembra fatta apposta per attirare un mucchio di polemiche per il tema, non principale ma estremamente ingombrante, che si agita sullo sfondo. Per The reader era l'Olocausto, per Extremely loud & incredibly close è l'Undici Settembre a New York.

Direi che in realtà il vero punto del film è lo stesso di L'albero della vita (e di innumerevoli altri film, a dire il vero, ma quello l'ho appena visto), ovvero come affrontare una mancanza, e quanto le armi della razionalità servano a poco o a nulla in quel contesto.

La differenza sostanziale è che qui il protagonista è un bambino di una decina d'anni, probabilmente affetto dalla sindrome di Asperger e come tale insopportabile (e Thomas Horn rende benissimo il personaggio, nel senso che più di una volta mi ha fatto sommamente girare le scatole), che perde il padre (Tom Hanks, parte minima) in un modo assolutamente irrazionale e quindi per il figlio ancor più drammatica.
Tra i suoi innumerevoli problemi del bimbo, c'è naturalmente anche una estrema difficoltà di relazionarsi con gli altri, tra cui il tapino include allegramente anche la madre (Sandra Bullock, pochi minuti anche per lei). La sua incapacità di comprendere i sentimenti, gli rendono difficile capire persino che il vegliardo che gli dicono affitti una stanza da sua nonna (Max von Sydow, muto per contratto ma molto più espressivo di tanti parlanti, direi che si è ben meritato la nomination all'oscar per questo ruolo) sia in realtà suo nonno, che ha grossi problemi per conto suo. Però in qualche modo lega con questo strano personaggio, e i due vanno assieme alla ricerca di una toppa per una chiave. Vedere il film per ulteriori spiegazioni.

Tutto andrà a finire per il meglio, dopo numerosi incontri e qualche sorpresa.

Bella la colonna sonora di Alexandre Desplat.

L'albero della vita

Poco da spartire con The tree of life di Terrence Malick, i due film sono separati da un lustro, e il titolo originale di quello di Darren Aronofsky (sceneggiatura e regia) è The fountain. Si tratta quindi del solito pasticciaccio brutto della distribuzione italiana.

Storia non delle più leggere, come del resto ci si può aspettare dal regista, con un intento direi quasi filosofico, e narrata in modo macchinoso. Insomma, giunto a metà del film mi è venuta la tentazione di mollare la presa. Fortuna che ho resistito perché, una volta che ho trovato il bandolo della matassa, le cose scorrono via meglio, e la tesi sostenuta merita di ragionarci sopra.

Riepilogando linearmente quello che in realtà viene proposto con un montaggio tale da complicare la vita allo spettatore, la vicenda è quella di una giovane donna (Rachel Weisz, affascinante) che ha un brutto tumore al cervello. Il marito (Hugh Jackman) è un ricercatore farmaceutico e, grazie alla sua comprensiva capa (Ellen Burstyn) ha praticamente mano libera nella ricerca di un qualche rimedio per la moglie. Il tutto è narrato in flashback, anche se ce ne rendiamo conto solo alla fine, e il punto è che lui sta cercando di capire il messaggio che la moglie gli ha lasciato, sotto forma di (pessimo) romanzo storico a cui manca la fine.

In pratica si ragiona sull'approccio da tenere in seguito ad una esperienza traumatica. Lei accetta la sua situazione, e cerca di vederla in prospettiva. Lui cerca di razionalizzare il problema e trovare una soluzione favorevole. Il che sarebbe un atteggiamento maturo e positivo, se non fosse che ci sono problemi, come la morte, che non hanno soluzione. Lei ci arriva prima, seguendo la via del sentimento, lui ci mette di più, seguendo il labirinto del racconto di lei e creandosi un mondo fantastico in cui ambientare l'ultimo capitolo del manoscritto della moglie.

Il film, fra l'altro, inizia facendoci vedere il pre-finale del romanzo, titolato come il film The fountain, una specie di polpettone storico ambientato a cavallo della corte di Isabella di Castiglia (che la Weisz rende splendidamente) e il centro-america, in cui un conquistador (sempre Jackman) cerca di trovare l'albero della vita con l'aiuto di un francescano (Mark Margolis). Poi si salta nell'ipotesi di ultimo capitolo del marito, dove lo stesso personaggio, grazie all'albero della vita, è immensamente vecchio, anche se non nel corpo, e continua a cercare un modo di trovare una fine alla storia. Altro salto mortale, e si finisce finalmente nella vera storia, non quella del romanzo scritto o da scrivere, ma quella narrata dal film.

Roba da perderci la testa, dunque.

Il Castello Errante Di Howl

Questa volta non si tratta di una storia originale di Hayao Miyazaki, ma è basata su un romanzo di Diana Wynne Jones (autrice fantasy inglese, a me sconosciuta), anche se basta leggere un riassunto dell'originale per rendersi conto che la sceneggiatura è stata pesantemente adattata all'immaginario tipico dei prodotti dello Studio Ghibli.

Siamo infatti, come spesso accade, in un indefinito universo parallelo, occhio e croce tardo ottocentesco, come ne Il castello nel cielo, a cui è assimilabile anche per le strane macchine volanti da fantascienza à la Jules Verne che popolano entrambe le pellicole. Locazione incerta, centro Europea, alcuni scorci mi sono sembrati tipicamente tedeschi. Solita tranquilla accettazione della mescolanza tra magici e persone comuni. In comune con Porco rosso c'è lo strano fenomeno della mutazione della protagonista sotto altro sembiante, che però non è definitivo, a tratti rispunta l'aspetto originale.

Il castello del titolo, abitato dal mago Howl, sembra uscito da un cartone dei Monty Python, o dei Beatles, il che si sposa alla perfezione con il messaggio antimilitarista che aleggia sullo sfondo. I disegni sono spettacolari, una vera festa per gli occhi, con un livello di dettaglio incantevole.

C'è qualche passaggio oscuro nella storia, le relazioni tra la protagonista, sua madre e le due sorelle sono appena accennate, giusto per rispetto del romanzo originale, immagino, ma penso che sarebbe stato meglio eliminarle del tutto, che la storia è già abbastanza complicata anche senza di loro. Succede infatti che la protagonista, per un equivoco, viene trasformata da una perfida strega in una vecchina. Disperata, scappa di casa, e finisce nel castello semovente del titolo, grazie all'aiuto di uno spaventapasseri, a far da donna delle pulizie del mago. Quindi scoppia una sanguinosa guerra, a cui il mago sarebbe chiamato a partecipare, ma proprio non gli va. Altre complicazioni, ma la protagonista, accettando il cambiamento pur mantenendosi fedele alla sua vera essenza, riuscirà ad arrivare sana e salva al lieto fine.

Il mio vicino Totoro

Come ha fatto notare Babol, c'è un gran fermento per lo Studio Ghibli di questi tempi, vedi Prevalentemente anime e A Gegio film, e magari fai pure un salto nel passato per leggere cosa ne diceva Componente instabile. E direi che i film di Hayao Miyazaki, e Totoro nel caso specifico, se la meritano tutta questa attenzione.

Se qualcosa vi spaventa, dice il padre alle sue piccole figlie, fatevi una bella risata. Ma c'è ben poco che spaventi le due monelle, se non la paura di perdere la madre. Riusciranno a superare anche quella, grazie alle affilate armi della fantasia, che le dota di un inesplicabile vicino, terribile spirito del bosco dall'aspetto orsacchiottesco e dal cuore d'oro, dotato di microbici (almeno a suo confronto) sodali affascinati dalle ghiande, e che in caso di necessità si muove con un fantastico gattobus.

Non so come mai, ma torna a venirmi in mente la scena in cui le due bimbe aspettano l'arrivo del bus che porta loro padre. Anche Totoro arriva alla fermata (scopriremo poi che lui aspetta il gattobus), piove, e si è messo una foglia in testa. La gentile ragazzina gli passa l'ombrello paterno e gli spiega come usarlo. Seguono momenti in cui i tre tacciono, mentre la pioggia cade. Non succede nulla, ma solo a pensare a quel gigantesco orsacchiotto, fermo sotto la pioggia, con l'ombrello in mano e con gli occhi sbarrati, non posso trattenermi dal ridere. Per non parlar del fatto che, fraintendendo, Totoro si tiene l'ombrello e se ne va felice.

La città incantata

Visto seguendo il consiglio di Sailor Fede. La storia è ambientata ai nostri giorni in Giappone, e inizia molto prosaicamente con una famigliola in viaggio in macchina verso la loro nuova casa, ma ha immediatamente un brusco cambiamento di scenario, così brusco che ricorda il salto di Alice nella tana del coniglio. Ma mi pare di vedere anche una citazione delle avventure di Pinocchio, che direi esplicita quando i genitori si dimostrano incapaci di resistere alle tentazioni della strada breve e subiscono una mutazione che però non è asinina ma suina. Sarà un riferimento ad Ulisse?
Purtroppo mi sfuggono completamente quelli alle mitologie orientali, e immagino che ci sarebbe da scriverci sopra un libro, tanto sono ricchi gli avvenimenti narrati.

La ragazzina protagonista arriva in un mondo abitato da spiriti che non vedono di buon occhio gli umani, per sua fortuna incontra un ragazzino che la prende istintivamente a ben volere, la salva dalla sparizione facendole mangiare una bacca (come in Alice, spesso mangiare o non mangiare al momento giusto è una azione chiave) e le spiega che sono in una spa per spiriti (!) e l'unica possibilità che ha per salvarsi è quella di farsi dare un lavoro. Va dunque da uno strano personaggio tra uomo e ragno, che sembra terribile, e che pare non voglia dare nessuna possibilità alla poveretta ma che invece, sorprendentemente, la aiuta a passare oltre. E così via per tutto il tempo del film. Ogni avventura ne genera un'altra, ogni incontro, anche quello che sembra più negativo, nasconde al suo interno qualcosa di positivo. Non ci sono personaggi in bianco e nero, al contrario, hanno normalmente una complessa personalità.

È molto diverso da Kiki consegne a domicilio, ma è anche molto simile. Anche qui una ragazzina si stacca dai suoi genitori, ha una avventura che la farà crescere, ma dovrà imparare ad adattarsi pur restando sé stessa. Il tocco dello studio Ghibli, e di Hayao Miyazaki, è decisamente riconoscibile, e anche l'uso della grafica computerizzata è molto personale.

Kiki consegne a domicilio

Trovato solo nella versione inglese della Disney datata 1998, che comunque non dovrebbe mancare nelle collezioni degli ammiratori di Kirsten Dunst, in quanto è proprio lei a dar la voce a Kiki. Per quel che ne ho capito, le differenze con l'originale dovrebbero essere minimali.

Visto su consiglio di Acalia, quando ha scoperto che il sottoscritto, pur rimanendo favorevolmente colpito dall'indubbia qualità de Il castello nel cielo, opera dello stesso Studio Ghibli, sempre per la regia di Hayao Miyazaki, di animazioni giapponesi ne conosceva davvero poco.

È il mio terzo film della famiglia, e ormai non sono più (molto) sorpreso dallo strano mondo parallelo in cui sono ambientate le vicende. Qui si narra di una giovane strega, ancora bambina, che come tradizione deve lasciare la famiglia per un anno in cui sperimentare le capacità magiche, prima di diventare una strega a tutti gli effetti. Una specie di rito di passaggio, dunque.

Al contrario del mondo potteriano, qui non c'è alcuna contrapposizione tra magici e "normali", al massimo un leggero stupore per chi vede la bimba volante per la prima volta. Con la sola compagnia di un simpatico gatto nero, Kiki parte per una città a caso, gira che ti rigira arriva a ... Stoccolma. È proprio lei, lo giuro. Solo che è su un oceano, ha un non so che di centro-europeo, con un tocco molto mediterraneo. E per quanto riguarda il periodo, direi che si tratta di un inizio secolo scorso, anni 30 o giù di lì, però variazioni (televisioni anni sessanta nelle case, ad esempio) che rendono una datazione reale impossibile.

La storia raccontata è minimalista, il fatto che Kiki voli su una scopa è puramente incidentale. È una ragazzina che sta diventando adulta, vive in una grande città, conosce gente, un ragazzino che si invaghisce di lei, fa amicizie, ha qualche avventura e piccole disavventure, finché sul più bello, si accorge di aver perso il suo unico potere magico, non sa più volare (ah, dimenticavo, non riesce nemmeno più a capire cosa dice il gatto). Tutto finirà bene, ma con qualche batticuore.

Direi che il film è pensato per un pubblico molto giovanile, ma con una cura tale da renderlo interessante un po' per tutti. Direi che sono due i temi principali, il distacco dalla famiglia e il bilanciamento tra l'esigenza di adattarsi all'ambiente circostante pur senza abbandonare le proprie caratteristiche personali.

1921 - Il mistero di Rookford

Il titolo originale è meno misterioso, The awakening, Il risveglio, nel senso di presa di consapevolezza, che fa capire meglio come non abbiamo a che fare con una investigatrice dell'occulto, niente Dylan Dog ante litteram, ma qualcosa dal ritmo più misurato.

Siamo dalle parti di The others, Il sesto senso o, in un certo senso, Gothika di Kassovitz. Storie di fantasmi presi sul serio, non esattamente il mio genere preferito, ma l'ho visto lo stesso per curiosità nei confronti del regista/sceneggiatore (Nick Murphy) che è al primo lungometraggio ma ha un decennio di esperienza in serie televisive. Se ne parla bene, e in effetti il film è ben diretto, e potrebbe avere un futuro interessante.

È la storia di Florence (Rebecca Hall, l'anno prima era in The Town), una brava cacciatrice di frodi spiritistiche. Finita da poco l'immensa carneficina della prima guerra mondiale, in molti vogliono essere rassicurati sui propri cari scomparsi, e gli imbroglioni ci sguazzano.

È facile capire dove la sceneggiatura vuole andare a parare, la razionalista Florence, che crede solo in quello che vede, dovrà finire per ricredersi (sbadiglio). Fortunatamente la vicenda è trattata con una certa sottigliezza. Florence, infatti, sin dall'inizio sembra quasi dispiaciuta di trovare solo ciarlatani, e capiamo che sarebbe più che disposta a credere a tutto, se non fosse che gli imbrogli in cui incappa sono di una grossolanità che urla vendetta.

Il suo problema è che ha perso il fidanzato in guerra e lei pensa di essere responsabile della sua morte. Inoltre, ma questo lo scopriremo più avanti, ha anche un altro trauma, risalente all'infanzia, ben più grave.

Già nei primi minuti vediamo come sia molto provata, e che farebbe bene a pigliarsi una vacanza molto spensierata, invece accetta di seguire Dominic West (nello stesso anno era il cattivo in Johnny English Reborn) in una scuola di campagna che fa venire i brividi solo a vederla in foto, dove c'è recentemente stata la morte di un bimbo che pare che sia legata all'apparizione di un altro bimbo che sarebbe morto qualche decennio prima.

La scuola de L'attimo fuggente, al confronto, sembra un rappresentazione del paradiso in terra, tra docenti e non docenti c'è poco da scherzare, e anche quella che dovrebbe essere la più umana della combriccola (Imelda Staunton, era la Umbridge in Harry Potter) fa venire i brividi a prima vista.

Si prosegue nei canoni dei film "de paura", fino ad arrivare alla serie di rivelazioni finali. Una è scontata, e quindi la dico senza tema di sorprendere il lettore, i fantasmi esistono davvero! (sbadiglio). Altre sono più immaginifiche, e dunque non spoilero. Pochi gli effettacci inesplicabili al solo fine di far rizzare i capelli allo spettatore (anche per il budget limitato, immagino), ma comunque il risultato viene raggiunto senza problemi, almeno nel mio caso.

Per accettare le apparizioni fantasmatiche mostrate come reali, ho assunto che ci venga mostrata la prospettiva dei protagonisti, nessuno dei quali è, come dire, propriamente in sé, a causa di dolorose esperienze non elaborate. Vedendola in questo modo la sceneggiatura non è poi così male.

Run fatboy run

Dovrebbe essere inedito in Italia, e come DVD ho trovato solo la versione originale. Peccato, perché, pur non essendo niente di strepitoso, è comunque una visione piacevole.

Prima regia cinematografica di David Schwimmer, che l'anno prima ha interpretato Big nothing (anche quello non disponibile in italiano) con Simon Pegg, che qui è protagonista e co-sceneggiatore. Il cast include anche Thandie Newton, ex del protagonista, Hank Azaria, nuovo spasimante della ex, e Dylan Moran, cugino di lei e amico di lui.

Commedia tra il romantico e lo svitato, tipicamente inglese alla, chessò, Quattro matrimoni e un funerale, con una buona dotazione di battute ma con qualche inciampo di troppo. C'è anche un inciampo reale, che è anzi la chiave di volta della storia, e quello potrebbe anche andare, ma sono le perdite di ritmo e qualche banalità di troppo che si sarebbe potuta evitare.

Nel prologo vediamo lui e lei (visibilmente incinta) che si stanno per sposare, lui ha una crisi di panico e scappa praticamente all'ultimo momento. Cinque anni dopo, ritroviamo Pegg ancora in corsa, ma adesso sta inseguendo un travestito che ha fregato biancheria intima nel negozio in cui lui fa la guardia.

Nonostante tutto questo correre è decisamente fuori forma (da cui il titolo) e se finirà per iscriversi alla maratona di Londra sarà solo per spirito di competizione con l'irraggiungibile rivale in amore che, americano trapiantato nella city per lavoro, è affidabile, ha alto tenore di vita e una invidiabile forma fisica. La sfida sarebbe persa in partenza, se non che l'americano vuole stravincere, e finisce per riuscire a fare il miracolo di scuotere l'amor proprio del protagonista.

Arriverà a vincere la maratona? Impossibile. Il suo obiettivo è semplicemente quello di riuscire ad arrivare in fondo, magari anche ultimo con distacco. Ma anche questo sembra molto difficile, almeno se i suoi strani amici (compreso il padrone di casa indiano) non gli daranno una mano.

Buoni gli scambi comici, in particolare tra Pegg e Moran, che già sono stati assieme in L'alba dei morti dementi.

The American

La sceneggiatura, pur non essendo niente di particolarmente sconvolgente, è interessante. Basata su un romanzo di Martin Booth, uno scrittore inglese nato poeta e convertito alla narrativa, adattato alle necessità produttive (George Clooney oltre che protagonista è anche tra i produttori) da Rowan Joffe, che ha riportano la storia più sui canoni del genere, mantenendo comunque l'introspettiva impostazione originaria, che potrebbe risultare sonnolenta allo spettatore che si aspettasse un film d'azione alla Bourne.

Peccato che la regia di Anton Corbijn sia discontinua, alternando momenti migliori a cose poco riuscite, in particolare il prologo e la prima parte del film mi hanno fatto pensare a prodotti televisi anni settanta, anche se l'eccellente fotografia ricorda che siamo in ben altro ambito.

La storia è tutta centrata sul personaggio di Clooney, un produttore artigianale di armi in funzione delle richieste di killer d'alto bordo, che non disdegna di fare anche lui qualche ammazzatina quando ne ha l'occasione. Agli altri restano solo le briciole, qualche spazio hanno i personaggi di Violante Placido, una giovinetta che sbarca il lunario prostituendosi; Paolo Bonacelli (per me indissolubilmente legato al personaggio di Leonardo da Vinci in Non ci resta che piangere), un prete di campagna; Thekla Reuten una cliente di Clooney. Particina microbica per Filippo Timi, e Johan Leysen è il capo di Clooney. Il cast prevalentemente italiano, e che si comporta benissimo, dimostrando che se la nostra cinematografia ha normalmente pessimi risultati fuori dai nostri confini la colpa non è della parte artistica, è giustificato dall'ambientazione. Infatti a parte il prologo svedese, il resto dell'azione si svolge quasi totalmente in Abruzzo, con una apparizione straordinaria di Roma.

Si inizia con Clooney all'opera come killer nel nulla boschivo e innevato svedese. Essendo braccato, lascia la Svezia e arriva a Roma (in treno, una bella sfacchinata) dove incontra il suo capo, che lo manda in una sorta di esilio in un paesino dell'Appennino. Clooney ha un paio di problemi, che non sarebbero tali per uno che facesse un lavoro normale, ovvero gli piacciono le donne e vorrebbe avere delle amicizie. Nel suo caso, si tratta di hobby che possono essere fatali, per lui e per gli altri.

Però ormai ha una certa età e il suo lavoro, in cui primeggia - bella le scene in cui lo vediamo reperire materiale di scarto nel garage di Timi, e tirarci fuori un silenziatore per il fuciletto che sta adattando su commissione - ormai non lo soddisfa più. Si crea così un paio di amicizie anomale, la prostituta e il prete, prima avvicinandosi sospettosamente, poi lasciandosi relativamente andare.

Arriviamo finalmente al nocciolo della storia. Il protagonista deve prendere una decisione, continuare la sua vita solitaria, o cambiarla per fare spazio alla Placido. Il cuore gli dice di cambiare, la ragione di fare attenzione. Il caso, rimescolatore supremo dei destini, deciderà come andrà a finire.

Eccellente Clooney nel rendere un personaggio dal carattere indurito da una vita solitaria, notevole la scena in automobile, nel finale, quando si rende conto che, dopotutto, le cose non stanno andando come lui si aspettava, e sembra che si chieda come mai la vita non è come un fucile, che lo si monta, lo si regola, e funziona come uno si aspetta.

A causa della sua passione per le farfalle, il protagonista viene chiamato signor Farfalla, e a casa del prete sentiamo uno spezzone da Madama Butterfly, ma la relazione col capolavoro pucciniano mi pare puramente causale. Per una disturbante rilettura dell'opera si veda piuttosto M. Butterfly di Cronenberg.

La riscrittura di Joffe del romanzo originario mi è sembrata influenzata da La legge del samurai di Jim Jarmush, per la passione del protagonista per il suo "lavoro" e per lo strano legame che ha con il suo capo.

La scena nel bar dove il barista sottolinea che C'era una volta il west è di Sergio Leone, un italiano, può sembrare insulsa a noi, ma bisogna tener presente che a livello planetario la cosa risulta spesso bizzarra. E in effetti, a pensarci bene, lo è. Ben strano che una delle migliori rappresentazioni dell'immaginario americano sia stata fatta da italiani.

Scandalo a Filadelfia

Ne parla il Bibliofilo, ne parla Gegio, ma a me The Philadelphia story non mi torna proprio in mente.

Possibile che non l'abbia mai vista? Eppure si tratta di uno dei titoli più noti sia per il regista, George Cukor, sia per il cast da favola, che ha per protagonisti Katharine Hepburn, Cary Grant e James Stewart. Infatti mi sbagliavo, l'avevo visto eccome, ma così tanti anni fa che mi si è accesa una luce solo dopo aver superato di gran lunga la metà.

Inizia con un omaggio alle comiche mute, con la rappresentazione della separazione tra la coppia originaria (Katharine Hepburn e Cary Grant) che, senza dire una parola, ma accompagnati da una colonna sonora molto espressiva, mostrano quanto la situazione tra loro fosse incandescente.

Esaurito il prologo in pochi secondi, si entra nella vicenda vera e propria. Sono passati due anni e la Hepburn è sul punto di risposarsi con un tale che non piace a nessuno, forse nemmeno a lei, dato che a un certo punto dice che il suo pregio principale è quello di essere l'opposto del primo marito. Quale primo marito rientra in gioco accompagnando un paio di reporter (Steward e la semisconosciuta Ruth Hussey, brava nella pur piccola parte) di un giornalaccio scandalistico che dovrebbero documentare il matrimonio.

Ne segue un gran parapiglia con ben tre uomini che si contendono la Hepburn. Se quello che sembrerebbe il candidato naturale, ovvero il promesso sposo (John Howard, ruolo gramo, recitazione non memorabile), è evidentemente quello con meno chances, resta in dubbio fino alla fine se sarà Grant o Steward ad avere la meglio.

È una commedia sofisticata molto sbarazzina, il cui punto principale mi pare sia l'elogio della imperfezione. Il personaggio della Hepburn è infatti una perfettina che non tollera mancanze da nessuno, e riuscirà a diventare umana (come dice lei stessa) solo nel finale.

I non eccelsi mezzi tecnici del tempo sono comunque utilizzati alla perfezione da Cukor, che riesce a creare situazioni comiche praticamente dal nulla. Vedi ad esempio qui, a circa un minuto dall'inizio della scheggia:

Jimmy Steward sta pasticciando con i regali della sposa, butta distrattamente un occhio fuori quadro, alla nostra sinistra, e si blocca, la macchina da presa si sposta, e vediamo anche noi quello che vede lui. Un semplice movimento di camera basta a scatenare una risata.

Sherlock Holmes - Gioco di ombre

La sceneggiatura, inspiegabilmente affidata ai coniugi Kieran e Michele Mulroney, il cui unico precedente è Paper man, film che hanno scritto e diretto con scarsi risultati, è decisamente il punto debole del film. Ma anche la colonna sonora, nonostante sia stata affidata Hans Zimmer, non è che brilli, a parte alcuni inserti non originali, qualche accenno al Don Giovanni mozartiano, che il dottor Moriarty si gode a teatro, e a Die Forelle (la trota), un bel lied di Schubert, di cui si fa un simpatico uso nella sceneggiatura. Nel cast, la prima donna Noomi Rapace passa quasi inosservata, Rachel McAdams le passa il testimone dal primo episodio e scompare, senza avere il tempo di dare un contributo significativo, Jared Harris nel ruolo del supercattivo professor Moriarty mi pare poco incisivo.

Nonostante questo, il risultato lo direi notevole. Grazie a Guy Ritchie, che copre i problemi di sceneggiatura con la regia inventiva di cui è capace, e grazie ai due protagonisti Robert Downey Jr. e Jude Law che nei reinventati panni di Sherlock Holmes e del buon dottor Watson fanno faville. Tra le figure di comprimari meglio riuscite, Stephen Fry ha la parte piccola ma significativa del fratello (più furbo) di Sherlock, e Kelly Reilly (la "cattiva" in Orgoglio e pregiudizio), presente già nel primo capitolo, diventa qui signora Watson.

La storia è molto liberamente basata sull'ultimo racconto della seconda collezione, Le memorie di Sherlock Holmes, che sir Conan Doyle, stufo del suo personaggio, aveva speranzosamente intitolato L'ultima avventura. Non fu il caso delle avventure su carta, e non lo sarà nemmeno per quelle cinematografiche. In pratica le somiglianze si limitano all'introduzione, al controfinale (anche se mi pare abbia più debiti verso 007 e una curiosa vicinanza a Johnny English reborn), all'introduzione del fratello e dell'arcinemico di Holmes.

Diversamente dal primo episodio, gli intrighi che Holmes e Watson affrontano sono molto più in linea con l'immaginario originale, anche se lo stravolgimento eseguito da Ritchie è perfino più radicale, e dunque chi si aspettasse un'aderenza ai personaggi originali, o almeno a quelle atmosfere, potrebbe restare deluso.

Chronicle

Non credo che la maledizione della Blair witch colpisca questo film, mi aspetto invece che il giovane regista (Josh Trank) e sceneggiatore (Max Landis) abbiano un futuro di successo, per lo meno dal punto di vista economico. Meno convinto sono delle possibilità per gli attori, anche se penso che almeno uno tra i tre protagonisti (Dane DeHaan?) potrebbe avere un futuro.

Si tratta della solita finta ripresa amatoriale che viene trasformato in finto film a basso costo per documentare una accadimento imprevisto ed incredibile, una storia di supereroi anomali che nasconde un cuore di critica sociale ad una società ancora molto violenta. Nulla è più incredibile di ciò che non è vero, e qui è tutto finto. Anche il basso costo della produzione è molto relativo, con quei soldi i registi nostrani ci girano una mezza dozzina di progetti "importanti", anche se effettivamente per il mercato americano una decina di milioni sono poca roba.

Da notare che il bottino è stato impiegato in larga parte per gli effetti speciali, le economie sono state fatte nel cast (di sconosciuti, anche se non incapaci) e nelle location. Solo poche le scene girate a Seattle, per il resto si è fatto affidamento sul solito Canada e, questa mi ha sorpreso, il Sudafrica. Curioso pensare che facendo scorrazzare il cast per il mondo la produzione abbia risparmiato soldi.

Codice: Genesi

Nonostante il titolo italiano, non è un film alla Dan Brown (anche se un suo libro appare per un momento in una scena). Piuttosto andrebbe confrontato con i post-apocalittici alla Io sono leggenda o Mad Max, in particolare il terzo episodio, dove lo straniero arriva in città e scompiglia le carte di chi la domina; e questo ci porta necessariamente allo spaghetti western, del resto citato obliquamente da un cattivo che fischietta allegramente il tema da C'era una volta in America. Vero che quello è un film di gangster del proibizionismo che poco ha a che fare con la vicenda corrente, ma l'accoppiata Sergio Leone - Ennio Morricone non può che rimandare nella giusta direzione. Altre influenze che mi pare di rilevare nell'opera dei registi (i fratelli Hughes) e dello sceneggiatore (Gary Whitta) sono Takeshi Kitano (Zatoichi, ad esempio, con un riferimento al protagonista che ha (?) un handicap che finisce per essere un vantaggio) e il solito Quentin Tarantino.

A mio gusto, la regia indulge eccessivamente in belle immagini che ricordano tavole di graphic novel ma che non aggiungono molto alla narrazione, anzi finiscono per essere indisponenti nel loro dire "guarda quanto siamo bravi". La sceneggiatura, come accennato sopra, segue i binari del genere, non spiega alcuni particolari che dovrebbero essere fondamentali, risultando in fin dei conti poco convincente.

In pratica si narra la storia di un tizio (Denzel Washington) che decide di essere in missione per conto di Dio, ma invece di essere un amante della musica blues preferisce Johnny Cash, inoltre Dio gli complica le cose chiedendogli di attraversare gli Stati Uniti a piedi, dopo che una guerra nucleare ha distrutto il Paese. La missione consiste nel portare una Bibbia a San Francisco. Lo seguiamo da quando è ormai vicino alla meta, dopo trent'anni di vagabondaggio. Facendo conto che sia partito da New York, sono circa cinquemila chilometri, dunque ha tenuto una media di centocinquanta chilometri all'anno, mezzo chilometro al giorno. Eppure viaggia con passo spedito, deve avere un pessimo senso dell'orientamento. Un altro problema è dato dalla scomparsa di ogni forma di autorità diffusa sul territorio, condizione classica dei film post-catastrofisti ma che rende inspiegabile il presupposto del film, secondo cui ogni libro religioso (e pare pure ogni luogo di culto) sia stato distrutto dopo la guerra, che sarebbe stata causata, per l'appunto, da questioni di fede. Già, perché, se non esiste più una autorità centrale, chi può aver mai dato quell'ordine? E chi può avere mai avuto l'interesse di eseguirlo, vista la situazione e i problemi più immediati che un superstite dovrebbe avere?

Ma questo è niente. Lo straniero arriva in città, va nel negozio per ricaricare le batterie del suo iPod, il che ci da modo di vedere all'opera Tom Waits in una simpatica particina, e, come ci si può aspettare, si mette nei guai con i cattivi locali che dominano il posto. Ne ammazza in quantità, e risveglia l'interesse del supercattivo locale (Gary Oldman) che è alla ricerca, per l'appunto, di una Bibbia, pensando di poterla usare per aumentare il suo seguito, ma ha anche bisogno di gente sveglia al suo seguito. Tra i suoi uomini sembra esserci solo uno sveglio, Ray Stevenson, quello che fischietta Morricone, e un assassino acculturato come Washington gli farebbe comodo. Cerca di convincerlo in vari modi, tra cui anche offrendogli in grazioso prestito la sua concubina (Jennifer Beals) e la di lei figlia (Mila Kunis). Niente da fare, è irremovibile. Passa la notte in città e il giorno dopo riparte, dopo aver ammazzato un'altra vagonata di pistoleri e persino ferito alla gamba Oldman.

La storia procede con altre vicende tra cui l'incontro con i due potteriani Frances de la Tour e Michael Gambon in un intermezzo in bilico tra Arsenico e vecchi merletti e Bonnie e Clyde, fino a giungere ad un finale aperto con Malcolm McDowell nei panni di un bibliotecario che è riuscito a conquistare Alcatraz, riadattarla ai suoi scopi, e dotarla di un servizio di sicurezza che gli permetterebbe di conquistare il mondo, per come abbiamo visto che è ridotto.

Storia improbabile, che non spiega molte cose, non riusciamo nemmeno a capire per certo se il protagonista ha o non ha un certo handicap, il che rende spiegabili o inspiegabili alcuni fatti a seconda di come la si pensi. Sostenuta da un buon cast, e anche da una regia tutto sommato piacevole, anche se non mi fa fare salti di gioia.

SeaFood - Un pesce fuor d'acqua

Produzione malese che gira il coltello nella piaga - sembra che tutti facciano animazioni digitali di questi tempi, tranne noi. Pesanti debiti dalle animazioni di ambiente marino di Disney, Pixar, DreamWorks, mentre i combattivi polli mi hanno fatto pensare a Galline in fuga e ai pinguini di Madagascar.

Un paio di amici squali (uno piccoletto, l'altro bello grosso) scorrazzano per l'oceano. Il piccolo nota delle uova di suoi simili, le vorrebbe accudire ma vengono portate via da un paio di umani. Parte al loro inseguimento, grazie anche al fatto che, inesplicabilmente, sa respirare anche fuori d'acqua. Per inciso, bella la scena in cui fa i primi passi sulla spiaggia, sembra di vedere una simulazione del colonizzazione della terra da parte di animali (ex-)marini nel nostro lontanissimo passato. L'amico squalo grosso lo segue con una sorta di capsula esplorativa inventata dal polpo cervellone del gruppo, che si scontra con bellicosi polli che poi cambieranno partito e aiuteranno gli squali contro gli umani. Nel frattemo una murena cerca di lasciare i fondali più profondi per invadere con la sua armata di temibili granchi le acque meno profonde.

Purtroppo sia l'animazione sia la sceneggiatura non sono all'altezza dei modelli di riferimento, a causa di uno scarso senso del ritmo e alla mancanza di fluidità. A tratti mi è venuto da pensare che un confronto con le avventure dei Teletubbies sarebbe più opportuno. E del resto il fatto che tra i produttori ci sia il canale per bimbi di Al Jazeera porta in quella direzione. Lo direi un prodotto televisivo medio per bambini a cui i Teletubbies cominciano ad annoiare ma non sono ancora pronti per cartoni più complessi.

Master & Commander - Sfida ai confini del mare

In attesa di The way back, già uscito in praticamente tutto il mondo ma ancora latitante sui nostri schermi, Master and commander: The far side of the world è correntemente il titolo più recente di Peter Weir. Oltre alla regia ha partecipato anche alla produzione e alla sceneggiatura (assieme a John Collee, che scriverà Happy feet e, più interessante in questo contesto, Creation), basata sulla serie di racconti di Patrick O'Brian, che non conosco, non mi pare sia molto popolare da noi, ma è ben noto nel mondo anglofono.

La regia è accurata, la storia ricordo molto i classici della letteratura marinara, con evidenti riferimenti a Joseph Conrad, Herman Melville, Robert Louis Stevenson, e a molta tradizione del genere cinematografico del secolo scorso. L'impostazione è quella da primo episodio di una saga, il finale è lasciato appositamente aperto, ma il successo di pubblico inferiore alle aspettative ha fatto sì che questo restasse un episodio unico. Da notare che nello stesso anno è uscito il primo episodio della saga dei Pirati dei Caraibi, in un certo senso paragonabile.

Centro della vicenda l'amicizia virile tra il capitano (Russell Crowe) e il medico di bordo (Paul Bettany) di una fregata (nel senso di nave) britannica impegnata nella caccia di una nave francese (siamo ai tempi delle guerre napoleoniche) nei mari del Sudamerica. I francesi sono più veloci, potenti, e sembrano quasi protetti da incantesimi, e la caccia si trasforma quasi in una ossessione. Molti gli episodi che inframmezzano lo scontro, che danno modo di affrontare molti elementi tipici del genere.

A dangerous method

Il pericoloso metodo che David Cronenberg ci racconta è la psicoanalisi, colta quasi sul nascere. L'azione è centrata sulla figura di Carl Jung (Michael Fassbender), che entra in relazione con Sigmund Freud (Viggo Mortensen) grazie al caso di una sua paziente, Sabina Spielrein (Keira Knightley), che seguirà secondo il pericoloso metodo freudiano. Lasciata al margine, c'è una quarta figura, Otto Gross (Vincent Cassel), che raddoppia il legame Jung-Freud e agisce da detonatore nella relazione Jung-Spielrein.

Che Freud e Jung siano nomi importanti del campo credo lo sappiano tutti, meno noto (almeno a me) era il ruolo della Spielrein, che da paziente si trasformerà in psicoanalista, e darà un importante contributo anche al pensiero freudiano e di Otto Gross, fautore di un approccio decisamente più radicale.

Il titolo è sottilmente ambiguo, in quanto fa pensare che il metodo sia pericoloso per il paziente, mentre è invece chi lo applica ad essere in pericolo, come Jung scopre a sue spese. Pensa di avere il controllo sulla relazione con la Spielrein, ma subirà un ribaltamento di ruoli. Del resto anche nella relazione con la moglie gli succede lo stesso, e dovrà prendere atto di non essere lui il solo a prendere decisioni.

Tutto il film, a ben vedere, è una schermaglia tra i protagonisti, a volte a colpi di fioretto, altre volte a sciabolate. Un solo atto esplicito di violenza, con la Spielrein che ferisce al volto Jung con un tagliacarte, ma anche qui più che l'atto in sé è il suo significato a contare davvero. I fendenti più micidiali a cui assistiamo sono tutti portati con parole, pronunciate o scritte, che, come si ben si sa, spesso tagliano più di coltelli.

La regia di Cronenberg è impeccabile, bella la ricostruzione dell'Europa centrale di inizio secolo (scorso), bravi gli attori, a cui è richiesto di rendere il personaggio usando quasi esclusivamente il linguaggio, e dunque meglio sarebbe vedere il film in originale, per apprezzare i piccoli cambiamenti di tonalità, soprattutto nei colloqui tra Freud e Jung, che aggiungono valore alla recitazione.

American life

Bizzarria, ma non caso isolato, dalla distribuzione italiana ha voluto che il titolo originale Away we go (Ce ne andiamo) venga "tradotto" in italiano in modo da creare un riferimento ad American beauty, come astuto meccanismo per aiutare lo spettatore distratto che si chiede chi sia il Sam Mendes alla regia.

Pur mantenendo toni molto critici verso l'American way of life, qui Mendes affronta una sceneggiatura molto lieve (Dave Eggers - che ha anche co-sceneggiato Nel paese delle creature selvagge - e Vendela Vida), realizzando una commedia ben distante anche dal dramma del suo precedente Revolutionary road, con cui condivide solo il fatto di mettere al centro dell'azione una coppia di giovani adulti dalle idee un po' confuse.

Differenza sostanziale, i due protagonisti (John Krasinski versione barbuta e Maya Rudolph) sono in gran sintonia, e quello che si esplora qui non è tanto la loro relazione, quanto il confronto tra loro e il resto del mondo. Il film li prende in un momento chiave del loro rapporto, a pochi mesi di distanza dalla nascita del loro primogenito. Scoprono (con gran sorpresa) di non poter contare sull'appoggio dei genitori di lui (Jeff Daniels barbuto è il padre) che, invece di pensare al loro ruolo di nonni, preferiscono organizzarsi un soggiorno di due anni in Belgio.

Da bravi americani, i due non hanno problemi a muoversi, e decidono di pensare a trasferirsi altrove. Non più giovanissimi, sulla trentina abbondante, colti dal sospetto di essere degli spiantati, vivono come studenti universitari, e non sembrano pronti ad una vera vita familiare. O almeno, sono convinti di non esserlo. Infatti pensano a dove trasferirsi in funzione di dove vivono amici/parenti. Si mettono dunque in viaggio per il Nord America scoprendo (con orrore) di non essere compatibili con tutte le opzioni che avevano pensato. Finiranno così per scegliere di affrontare da soli il passaggio all'età adulta.

Si tratta dunque di una storia di formazione on the road, un po' come This must be the place, ma da parte di un paio di simpatici ragazzotti, senza grossi problemi che, dopotutto, non incontrano grandi difficoltà. La loro vicenda mi ha fatto pensare alla dichiarazione di quel demente stragista norvegese, che odiava la canzonetta di Pete Seeger. Avesse visto questo film, gli sarebbe venuta la bava alla bocca, anche solo per la colonna sonora. Io, invece, ho trovato molto piacevole questa piccola storia tranquilla che parla di piccoli problemi di persone tutto sommato normali.

I personaggi incontrati sulla strada dai protagonisti tendono alla macchietta, dato il poco tempo lasciato loro. Ad uscirne meglio mi pare sia il terribile personaggio interpretato da Maggie Gyllenhaal, una fricchettona femminista con buffe idee che lei ritiene molto serie.

American gangster

Produzione danarosa, solida regia (Ridley Scott), un ottimo cast artistico e tecnico. La storia, però, pur essendo teoricamente interessante, non mi ha acchiappato più di tanto. Non da farmi annoiare, rischio non da poco, data la lunghezza elefantiaca dell'edizione estesa da quasi tre ore del DVD, che aggiunge un quarto d'ora alla versione ufficiale, ma abbastanza da lasciarmi insoddisfatto.

Non è tanto un film di gangster, quanto sull'American Way of Life, applicata allo spaccio di droga. Il paragone con Il padrino di Coppola e dunque molto superficiale. I personaggi navigano circa nello stesso ambiente, ma viaggiano su rotte diametralmente opposte. Restando in tema di Coppola, si può notare anche il differente approccio verso la guerra del Vietnam, sia nel Padrino, sia in Apocalipse now e ne I giardini di pietra. Qui la guerra è solo una occasione per fare affari. Nessun dilemma, nessun dramma, solo una opportunità economica.

La storia è vista seguendo la prospettiva dei due protagonisti: un piccolo delinquente (Denzel Washington), tirapiedi di un piccolo boss della malavita nera newyorkese che in seguito alla morte del suo capo finisce per ereditarne il regno e farlo crescere a dismisura grazie ad alcune sue idee imprenditoriali; e un poliziotto (Russell Crowe) che finisce per dargli la caccia.

Come spesso accade ai film basati su storie vere, si perde tempo su aspetti secondari che in realtà interessano poco allo sceneggiatore, al regista, e figuriamoci quanto possano risultare interessanti allo spettatore. In particolare le sottotrame familiari, con il poliziotto che divorzia da Carla Gugino, e il delinquente che si piglia una moglie trofeo, risultano stereotipate e inutili al tema principale.

La parte di Crowe racconta l'ambiente della polizia newyorkese, già trattata da Scott in Black Rain, ma dal punto di vista di un poliziotto "pulito", in un ambiente piuttosto corrotto, esemplificato da Josh Brolin. Viene messo a capo di un gruppo per combattere i grossi commercianti di droga, fa il suo lavoro, dopodiché molla la polizia per fare l'avvocato. Storia che non regge molto dal punto di vista filmico, visto il deludente finale. Prima lavora per mettere in galera i "cattivi", ma poi si stufa e passa dall'altra parte della barricata. Però pare che le cose siano andate davvero così, e c'è poco da fare.

Più interessante la storia di Washington. Fa la gavetta in una impresa (delinquenziale), in seguito alla morte del capo questa entra in crisi, lui ne prende le redini, applica idee nuove, ne segue il successo. Le idee sarebbero usare le strategie degli "italiani" (e si intende la cosa nostra americana) nella struttura direttiva della banda, che viene colonizzata da parenti stretti del nuovo capo, e applicare i metodi da centri commerciali, andandosi ad approvvigionare direttamente dal produttore di droga.

Carente, a mio avviso, il finale. L'organizzazione era destinata alla catastrofe, non si è trattato di una serie di sfortunate circostanze. Come giustamente fa notare un personaggio minore (Jon Polito, credo) gli "italiani" reggono perché la "famiglia" è più importante del singolo. Nessuno è essenziale, chiunque può essere sostituito, anche il padrino. Sono le relazioni che fanno la struttura, e le relazioni sono più durature dei singoli individui. Anche l'idea di andarsi a pigliare la droga direttamente dal produttore non funziona, se non in circostanze particolari come quelle narrate. Infatti una volta che l'esercito americano lascia il Vietnam, necessariamente tutto crolla.

This must be the place

Numericamente vincitore ai David con sei stautette, (anche se Cesare deve morire dei Taviani si cucca i premi per il miglior film e la miglior regia) avrebbe forse potuto puntare a pigliarsi almeno qualche nomination agli Oscar, se non fosse che un pasticcio organizzativo non avesse causato il lancio sul mercato americano solo a marzo di quest'anno, rendendolo quindi eleggibile, ma a questo punto con scarse speranze, per l'edizione 2013.

Errore sorprendente, considerando l'investimento ragguardevole. Ennesima occasione sprecata per una produzione italiana, spero solo che non si trasformi in uno stop ad ulteriori prove internazionali per Paolo Sorrentino.

La storia è quella di una rock star in disarmo (Sean Penn), ritiratosi a vivere in una villa strepitosa da qualche parte in Irlanda con la moglie (Frances McDormand). La prima mezz'ora ci mostra quanto sia sull'orlo della depressione. Fatto è che faceva musica per denaro, e la punizione che ha ricevuto per questa sua colpa è stata quella di guadagnarne una quantità spaventosa e di non sapere cosa farsene. Colpa accessoria, e non minore, è stata quella di cantare canzonette deprimenti vagamente suicidarie, solo perché suonavano bene, ma prese sul serio da almeno un paio di suoi giovani fan.

Capita poi che lo avvertano che il padre, che non vedeva da decenni, sia in punto di morte, torni dunque negli USA, per lui lontanissimi dato che tra le numerose fobie ha anche quella per il volo. Arriva tardi, ma scopre che il padre aveva una ossessione: ritrovare un nazista che l'aveva umiliato nel 1943, in un campo di concentramento. Parla con un cacciatore di criminali di guerra, ma scopre che si tratta di un pesce piccolo, e per questo non interessa a nessuno. Decide dunque di fare da sé.

Tutto quello detto sopra è solo il prologo, la vera storia è il viaggio che porterà il protagonista a diventare finalmente adulto.

Visto il tema, ci voleva una colonna sonora adeguata, che viene fornita in larga parte da David Byrne, che ci canta pure dal vivo la canzone che dà il titolo al film.

Premiate con un David la sceneggiatura di Sorrentino e Umberto Contarello, la fotografia di Luca Bigazzi (avvantaggiato anche dalle riprese on the road nei vasti spazi americani, che fanno sempre scena), Byrne come miglior musicista, la migliore canzone originale, il miglior truccatore, e il miglior acconciatore.

Non ho visto il film dei Taviani, ma la regia di Sorrentino mi è sembrata molto buona, alcune sequenze sono girate in modo memorabile.

Gianni e le donne

Molto simile al precedente Pranzo di ferragosto, sempre scritto, diretto, interpretato da Gianni Di Gregorio, ma qui ci si focalizza su Gianni, sessantenne pensionato con madre indisponente che non sa più bene cosa fare della sua vita.

Vive nel suo appartamento con moglie, figlia e il di lei fidanzato, ma senza avere grandi relazioni con nessuno dei tre, anzi, scambia qualche parola in più solo con il "genero". Passa le sue giornate tra faccenduole, girando fondamentalmente a vuoto. Non vorrebbe rassegnarsi al ruolo di anziano, ma nota di essere diventato invisibile alla popolazione (in particolare quella femminile e piacente, che sarebbe poi quella che gli interessa).

Il suo cruccio principale è la madre, evidentemente ben messa economicamente, ma che preferisce sperperare allegramente il suo denaro piuttosto che pensare al figlio, del quale si ricorda solo quando ha bisogno di qualche lavoretto (il che avviene molto spesso, del resto).

L'amico cerca di spronarlo ad avere avventure extra coniugali, cosa che si rivela più facile a dirsi che a farsi. Lo seguiamo mentre goffamente ci prova con la badante della madre, due gemelle clienti dell'amico, una vecchia amica, il primo amore ricontattata per l'occasione. Infine l'amico ammette che anche lui non è che combini poi molto, e gli passa l'indirizzo dove, elargendo una sommetta, si può contare su attenzioni femminili. Gli fa ingollare anche una pillola, per evitare spiacevoli defaillance. Purtroppo l'effetto della pillola è a tempo limitato, e il traffico di Roma può giocare brutti scherzi.

Finale lisergico, con Gianni che (forse) si rassegna allo scollamento tra la realtà e la sua immaginazione.

Big nothing

Film inglese, di regista/sceneggiatore francese (Jean-Baptiste Andrea), con qualche nome noto americano nel cast, giustificato dall'ambientazione negli USA. La catastrofe al botteghino inglese ne ha prematuramente stroncato la vita cinematografica, e anche la distribuzione in DVD è stata limitata. Non esiste il doppiaggio italiano, ma grazie all'Europa unita, da noi si trovano senza troppa difficoltà esemplari nati per la distribuzione inglese e tedesca.

Commedia nera alla fratelli Coen, ma con influenze provenienti dal primo Guy Ritchie e da Quentin Tarantino. Piacevole e variegata la colonna sonora.

La storia ricorda vagamente Fargo, anche qui a uscirne bene è solo la poliziotta (Natascha McElhone). Il resto è una carneficina.

Protagonista è David Schwimmer (quello di Friends), un ex insegnante con PhD, marito della poliziotta, disoccupato per un problema che verrà spiegato più avanti nel film, riesce a trovare lavoro solo in un call center. Lì incontra uno strano collega (Simon Pegg) che causa involontariamente il suo immediato licenziamento. Un po' per senso colpa, un po' per mancanze di alternative, Pegg chiede a Schwimmer di partecipare ad un ricatto, una cosetta semplice semplice che, naturalmente, si rivela densa di problemi, sia per una serie di sfortunate coincidenze, sia per l'incapacità dei perpetratori. Il primo dei quali è che sarebbero dovuti essere solo loro due, ma la fidanzata di Schwimmer (Alice Eve, ai tempi semisconosciuta, oggi pure, ma si è fatta vedere in film tra cui The raven, e sta per uscire in Men in black 3, nel ruolo di Emma Thompson giovane) li sente discutere della cosa e si aggrega.

Il ricattato è un prete con il remunerativo hobby della pornografia, sposato (è protestante) con una donna dal carattere molto deciso che ha un amante che non disdegna l'uso della pistola. In seguito ad una serie di circostanze, il terzetto cambierà rapidamente la fattispecie del loro reato, avranno a che fare con alcuni poliziotti non particolarmente brillanti, tra cui Jon Polito (che sottolinea il legame con i Coen) e Billy Asher (che è anche co-sceneggiatore), e scopriranno inaspettati legami con altri crimini commessi da un paio di serial killer, il "Becchino dell'Oregon" e la "Vedova del Wyoming".

Come dice il titolo (il grande nulla), si fanno amare risate. Quasi tutti mentono, per quasi tutti l'unica cosa importante sono i soldi che dopotutto, non sono altro che pezzi di carta buoni solo per farci disegnetti sopra.

Miracolo a Le Havre

I film di Aki Kaurismäki (con tanto di dieresi sull'ultima a) mi fanno lo stesso effetto che hanno i numeri delle barzellette sui galeotti di quella vecchia storiella ... come quale storiella? Questa:

Un ministro va in visita ad una prigione. Sta camminando con il direttore del carcere in un corridoio, quando sente un recluso esclamare "quarantadue". Tutti gli altri detenuti ridono fragorosamente, le guardie si trattengono a fatica. Fa altri quattro passi ma un "diciotto!" e risate omeriche lo bloccano. "Insomma, che succede qui?", chiede. "Vede, questo è il braccio degli ergastolani, le barzellette che girano qui ormai sono sempre quelle, al punto che basta dire il numero invece di raccontarla."
Decide di provare anche lui: "quarantadue". Silenzio. Le guardie fanno sorrisetti stiracchiati. "QUARANTADUE!" Sempre silenzio. Guarda inviperito il direttore e gli chiede perché nessuno rida. Quegli cincischia, ma alla fine cede: "Vede, è che lei non la sa raccontare bene."

Nei suoi film succede poco, ma in compenso il minutaggio è scarso. Non è raro che la macchina da presa indugi su un attore che non fa nulla, o su un dettaglio di poco conto. Però ogni tanto uno dice quarantadue (metaforicamente), e io rido. O mi commuovo, o mi partono dei pensieri. A seconda del numero.

Qui si narra di un lustrascarpe francese, ex bohemien/clochard parigino ritiratosi in provincia, che ha trovato conforto e un tetto grazie al buon cuore di una donnetta di cui sappiamo poco, se non che viene beccata da un tumore di quelli tosti e finisce in ospedale con poche prospettive di uscirne bene. Tutti sanno che la poverina è quasi spacciata, tranne lui, a cui viene nascosta la verità. Appena ricoverata la moglie, si imbatte in un ragazzino africano che sta cercando di raggiungere la madre a Londra. Per nessun motivo in particolare, la polizia lo cerca, e per passare la Manica servono tanti soldi.

L'atmosfera paesana da douce France mi ricorda quella dei film di Jacques Tati, con dialoghi sullo sfondo che riempono intere sequenze in cui succede poco altro. E anche macchine, vestiti, musica potrebbero essere stati presi da un suo film. Come se il tempo di fosse fermato nella Le Havre di Kaurismäki, e non dico il duemila, ma nemmeno gli anni settanta fossero arrivati.

Tra le bizzarrie del film, c'è anche un concerto di Little Bob, una specie di Little Tony d'oltralpe (e originario d'Italia), organizzato alla Blues Brothers per raccogliere i fondi mancanti. Fra l'altro, nonostante la decrepitezza di Little Bob e di buona parte della sua band, rispetto al resto del film sembrano moderni. In ogni caso c'è un impiccio, Bob lo farebbe, ma non è in vena, perché la sua donna l'ha lasciato per questioni arboricole.

Moltissime microstorie affollano la narrazione, per cui paradossalmente ci si metterebbe molto di più a raccontare questo film, in cui sembra che quasi nulla accada, che uno di quei blockbuster alla Battleship (tanto per sparare sulla crocerossa) in cui pare che accada di tutto ma invece non succede niente.

The reader - A voce alta

Come diceva quel tale, "Et si omnes, ego non". Anche se tutti gli altri la pensano in un certo modo, non è ragione sufficiente perché anch'io la pensi così. Che è facile da scrivere, soprattutto in una lingua epigrammatica come il latino, meno facile da mettere in pratica.

Regia di Stephen Daldry basata su il lavoro di David Hare di conversione del romanzo originale (Bernhard Schlink) in sceneggiatura, che direi non sia stato facile, nonostante la sua esperienza (Il danno di Luis Malle e The Hours ancora di Daldry) a causa di una certa involutezza del racconto. Poco viene spiegato direttamente, quasi tutto è lasciato come difficile, per lo meno emotivamente, compito per lo spettatore.

Il punto di vista è quello di Michael, un avvocato berlinese di mezza età. Lo seguiamo in una sua giornata molto problematica. Dal risveglio con una partner abbastanza occasionale, poi in tribunale dove segue distrattamente un caso, infine a sera a cena con la figlia con cui ha una difficile relazione (è divorziato). Seguirà un addendum con un viaggio in macchina con la figlia verso la riconciliazione del protagonista con il suo passato.

Questa trama minimale è inframezzata da lunghi flash back che ci spiegano il carattere di lui, chiuso, difensivo, distaccato (Ralph Fiennes) mostrandoci un paio di episodi chiave della sua gioventù (David Kross). Ragazzetto debilitato da un incipiente malanno, incontra Hanna, una bigliettaia del tram (Kate Winslet) brusca ma gentile, che lo aiuta a tornare a casa. Si fa un paio di mesi a letto, e quando si ristabilisce si reca a ringraziarla per l'aiuto. Lei non ci pensa due volte e, metaforicamente parlando, se lo mangia in un boccone.

Nasce una relazione molto sessuale, mitigata dalla passione per lei della letteratura, chiede a lui di leggerle di tutto, e dal confuso sentimento di lui per lei, che gli fa da mamma, amante, compagna. Dopo pochi mesi lei sparisce nel nulla, lasciandolo perplesso e ferito.

Anni dopo, ormai studente di legge, si reca con un insegnante (Bruno Ganz) ad assistere ad un processo ad alcune donne che hanno prestato servizio come guardie delle SS in un campo di concentramento. Hanna è fra di loro, e mostra di non capire per che motivo ce l'abbiano con lei. Mentre le sue compagne mentono per nascondere le proprie responsabilità, lei ammette il suo ruolo. Anzi, alla fine finisce per accettare di fare da capro espiatorio, dichiarando di aver avuto facoltà decisionali, cosa evidentemente non vera.

Solo Michael si rende conto che lei mente, e capisce che lo fa per nascondere qualcosa che ritiene più vergognoso della sua partecipazione attiva all'Olocausto. Potrebbe dunque salvarla da una condanna all'ergastolo, ma non lo fa, un po' perché non vuole rendere nota la sua relazione con Hanna, un po' perché ritiene di non dover tradire Hanna, visto che lei vuol tacere sul punto che la salverebbe, un po' forse anche perché vuole punire Hanna per averlo abbandonato. Parlare con lei aiuterebbe, come gli fa notare il professore, ma lui non ci riesce.

Passano gli anni, Michael ha trovato una forma intermedia di supporto a distanza verso Hanna, con cui però rifiuta di avere un colloquio diretto. Arriva il momento della scarcerazione di lei, e lui dovrebbe prendere una decisione in un senso o nell'altro. Cerca di barcamenarsi, ma a questo punto è Hanna a risolvere definitivamente la vicenda.

Sarà forse l'incontro tra Michael e la figlia di una sopravvissuta all'Olocausto (Lena Olin) ad aiutarlo a chiarirsi le idee. Ancora mezzo secolo dopo i fatti, lei non vuole e non può dare alcuna assoluzione a chi ha fiancheggiato in qualunque modo una strage che ha portato via, tra l'altro, la sua intera famiglia. Però accetta di stabilire una relazione con Hanna.

Daldry riesce a gestire efficacemente la materia, grazie anche ad un ottimo cast in cui spicca la Winslet, alle prese con un carattere decisamente complicato e ad alta tensione emotiva. Oscar per lei, direi strappato a sé stessa in Revolutionary road.